Il non potere della terapia

In questi anni mi è capitato spesso di leggere articoli, sentire dibattiti, ascoltare pazienti o amici, che descrivevano il potere che la terapia ha avuto nella loro vita.A chi volesse avvicinarsi a questa esperienza risulterebbe facile documentarsi su ciò che può fare la terapia, quale può essere la sua utilità. Devo dire però che, spesso, il significato del percorso di psicoterapia viene travisato, e vengono riposte in questa esperienza aspettative che non hanno nulla a che vedere con ciò che poi accade in realtà. Così, poiché troppo spesso mi sono ritrovata a confrontarmi con alcune affermazioni di miei pazienti come: “Sono due anni che sono in terapia e ancora questa cosa non è cambiata.” – “Sono venuto in terapia per stare bene, sono stanco di stare male.” – “Pensavo di essere più avanti nel mio percorso ed ecco che torna questa difficoltà.” – “Sono anni che faccio terapia e ancora non ho una relazione, un lavoro.” – “Sono venuto qua perché tu mi dicessi cosa è meglio per me.” e molte altre frasi simili, ho deciso di scrivere questo articolo su ciò che non può fare la terapia. Mi rendo conto che forse mi tirerò la zappa sui piedi, ma sono stanca che la psicoterapia sia mistificata per poi essere distrutta. Sono stanca di vedere alcuni miei pazienti mandare a monte l’impegno che hanno messo in un percorso di anni, vanificare i propri sforzi o, peggio ancora, usare la terapia come un alibi per dirsi che neanche questo ha funzionato.

Molti pazienti vengono in terapia per cambiare. Cambiare ciò che di sé stessi li spaventa, ciò che non piace loro o li disturba.Pertanto comincerei affermando che la terapia più che portare ad un cambiamento porta all’accettazione. Non c’è nessun cambiamento senza accettazione. La terapia di per sé non ha il potere di cambiare o trasformare la nostra natura, ma piuttosto di aiutarci a comprenderla e liberarla, “farcela amica” per imparare ad esprimerla costruttivamente a favore del benessere della nostra vita. Altri pazienti vengono in terapia per smettere di soffrire.Anche qui direi che, purtroppo, a volte fare un percorso di terapia può voler dire anche attraversare le nostre emozioni più cupe. La terapia non è un modo per evitare il dolore, ma è la sua comprensione e la sua trasformazione.

Ci sono anche pazienti che vengono in terapia perché vogliono smettere di avere paura. Ma per smettere di avere paura bisogna affrontare le proprie paure. La terapia non ci trasforma magicamente. E’ il viaggio che ci aiuta a compiere che crea in noi un’ esperienza riparatrice. Se vogliamo smettere di avere paura la terapia può aiutarci a comprendere e attraversare questo nostro vissuto, può sostenerci mentre affrontiamo le paure stesse, ma non può annullarle.La terapia chiede impegno e costanza. Il vero lavoro si fa una volta fuori dalla stanza. Durante le sedute si acquisisce consapevolezza, si entra in contatto con i nostri vissuti, si impara ad esprimerli, si acquisiscono una serie di strumenti; il nostro impegno sarà quello di impegnarci a portare tutto questo nella nostra quotidianità. Alcuni pazienti iniziano un percorso di terapia per trovare qualcuno (un terapeuta) che gli dica cosa fare, cosa sia giusto o sbagliato, cosa sia meglio per lui. Sfatiamo una volta per tutte il mito che la terapia significhi affidarsi ad un terapeuta che ci dirà cosa dobbiamo fare. In realtà sarà utile usufruire del suo aiuto, dei suoi strumenti, per poter trovare dentro di noi cosa sia giusto a riprenderci la responsabilità della nostra vita, per guidarla e sentirci bene con le scelte che facciamo. Altra falsa convinzione, nella quale a volte cadono i pazienti, è dimenticarsi che la buona riuscita di un percorso non dipende solo dall’aver scelto un “bravo terapeuta”. La terapia si basa sulla costruzione di una relazione che, come tutte le relazioni, richiede coinvolgimento ed impegno da entrambe le parti. Un’alleanza che, per funzionare, richiede ad entrambe le parti di attivarsi, proprio come accade in ogni relazione. Molti pazienti si rivolgono alla terapia per risolvere velocemente una disagio, ma la terapia ha i propri tempi. Nessuna trasformazione importante è veloce, ci abbiamo messo anni ad essere quello che siamo e la terapia non combatte le nostre resistenze, non forza. La terapia accompagna la persona perché trovi un nuovo modo per vivere la propria vita senza forzarla, in modo che possa ritrovare la propria naturalità. Ci sono anche i pazienti che vengono in terapia con la convinzione di non poter fare più nulla per sé stessi e la propria vita. Non credono di poter cambiare la loro esistenza e, in poche parole, non credono veramente nella terapia stessa. Per fare una buona terapia occorre avere fiducia e credere di avere altre possibilità. La terapia non è affidarsi ad un terapeuta perché ci guarisca, la terapia è ritrovare la fiducia in sé stessi, la fede nella vita e la voglia di costruire attivamente il proprio futuro.

Mamma.

Mamma ti vedo, ti vedo quando piangevi, ti vedo anche quando cercavi di non piangere e buttavi indietro le tue lacrime, in un posto profondo, profondo, che neanche tu ricordi e poi lì ti facevano male, scavavano e bruciavano.
Forse era per questo che non sopportavi le mie di lacrime.

Mamma ti vedo, ti sentivi sola e sperduta, non potevi fidarti del tuo cuore, dovevi essere forte e fare la cosa giusta.
Forse era per questo che eri sempre così dura, così severa.

Mamma ti vedo, vedo la tua enorme paura era come un buco nero, un vuoto che ti risucchiava, ti divorava e tu combattevi e lottavi contro i tuoi mostri.
A volte ci finivamo dentro tutte e due insieme… Io tenevo la tua mano, anche se avevo paura di quei mostri.

Mamma ti vedo dopo che hai perso tua figlia… ti allontani, vai in esilio… mamma non ti vedo più.

Mamma mi ricordo… mi ricordo che mi volevi bene mi ricordo che ti volevo bene, piccoli attimi caldi mentre naufragavamo in un mare gelido.

Mamma mi ricordo, mi ricordo i tuoi capelli rossi, fili preziosi a cui mi aggrappavo per non affogare, le tue mani magre ma forti che mi sollevavano.

Mi ricordo il tuo sorriso che improvvisamente illuminava tutto il mio cielo.

Mamma mi ricordo quando gridavi, grida ancora perché ho perso la strada e devo tornare a casa, chiama il mio nome…

Mamma mi ricordo, tu sei mia mamma io sono tua figlia.

Siate liberi e pensate con le vostre teste.

 

Tempo di Coronavirus.

Facile? Scontato? Banale? Per nulla. Essere liberi non significa poter fare tante cose. O scegliere di non farle. Sappiamo tutti che il concetto di libertà è tutt’altro che assoluto: è influenzato soggettivamente dai modelli educativi ricevuti, dalla cultura di appartenenza, dal livello di autostima che si possiede; è condizionato oggettivamente dal contesto sociale e familiare, dalla contingenza delle circostanze.

Questo tempo, in cui la nostra libertà sembra essere giustamente limitata, mi porta a riflettere su cosa significhi esattamente essere liberi. Non ho delle risposte ma solo riflessioni e domande.

Prima domanda: Cosa succede quando il nostro diritto alla libertà viene messo in discussione in nome della tutela della nostra vita.

Non c’è risposta a questa domanda o almeno io non l’ho trovata. L’uomo non baratta la propria libertà con la propria vita, perché sa bene che se non c’è vita non c’è libertà.

Molte delle grandi dittature sono salite al potere in nome della salvaguardia della vita.
E’ questo che mi spaventa.
Stiamo sperimentando sulla nostra pelle che nel nome della salute è possibile revocare la libertà, sospendere i diritti elementari e la democrazia, imporre senza se e senza ma norme restrittive, fino al coprifuoco.
Non sto mettendo in discussione la profilassi e la prevenzione adottate, magari posso dissentire sui singoli provvedimenti o sulla loro arbitraria e casuale applicazione, su tempi e sui modi ma è ovvio che l’unico modo per rallentare un’epidemia è limitare le possibilità di contagio.
Ciò che mi spaventa è la modalità con cui questi limiti vengono suggeriti/ imposti.
Attraverso la diffusione della paura.
Il tema di fondo è antico quanto l’uomo e la politica. Il potere regge sulla paura, lo diceva Hobbes e in modi diversi Machiavelli. E lo dicevano gli antichi prima di loro. E la paura è sempre, alla fine, paura di morire.
Pensate, è come se io educassi i miei figli facendogli credere che se non seguono le mie direttive moriranno.
La minaccia della morte ci priva automaticamente della libertà.

E quindi?
Quindi non so, ma mi chiedo: ”Fino a che punto sono disposta a modificare la mia vita e a cambiarne la qualità, pur di ascoltare la promessa di vivere più a lungo ed evitare la possibilità di ammalarmi o di mettermi in pericolo?”.

Seconda domanda: Chi è il nemico che stiamo combattendo?

In un articolo uscito su Internazionale pochi giorni fa, Daniele Cassandro segnala che “l’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra”.
Citando Susan Sontang, “trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate”.

Come psicoterapeuta mi permetto di dire che, la metafora del paese in guerra è rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo, perché di nuovo ci pone in uno stato di timore e paura.
Differenzia le vittime dagli eroi, i buoni dai cattivi. Ci inscrive automaticamente in un copione dove ognuno ha un ruolo e un destino.
Gli eroi vengono celebrati celebrati, ma morti.
Le vittime rischiano la vita e in genere muoiono.
I buoni sanno cosa è buono.
I cattivi vanno combattuti.
Parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne. Ci mette gli uni contro gli altri. E’ perché aderiamo a questo copione che vediamo i nostri vicini come possibili portatori del virus o accusiamo e denunciamo chi secondo noi non segue le regole.
Chi sono i veri nemici di questa guerra?
Qual è il mio ruolo in questa guerra?

Non è una guerra, ma è pericoloso pensare che lo sia perché, in questa cornice, risultano legittimate molte azioni contro cui in genere ci opporremmo.
Solo in uno scenario di guerra possiamo accettare che qualcuno possa decidere chi deve vivere e chi deve morire.
Solo in uno scenario di guerra possiamo pensare che una vita meriti di essere salvata più di un’altra.
Solo se pensiamo di essere in guerra possiamo accettare di morire lontano dai nostri cari.

Io non sono in guerra e se c’è una guerra io posso decidere di non combatterla.

Terza domanda: Chi decide cosa è meglio per noi al tempo del Coronavirus?

Sono sempre stata solita rimandare ai miei pazienti che loro e solo loro sono in grado di sapere e decidere il meglio per sé stessi. Basta imparare ad ascoltarsi. Prendere in mano la propria vita significa essere responsabili di sé stessi, ma anche più potenti e più capaci di dare la forma che vogliamo al nostro futuro.

Ma possiamo veramente scegliere per noi stessi, se abbiamo abdicato a questo nostro potere perché siamo in preda alla paura e all’insicurezza? Credo che, ogni decisione che prendiamo nell’oggi, debba vivere dentro a possibili scenari futuri, dal migliore al peggiore nel rispetto di sé stessi e degli altri.
Di questi tempi però, pare funzioni meglio chi decide e costruisce le proprie azioni come se le cose andassero nel peggiore dei modi de attua le condizioni per sopravvivere in quella situazione. La ragione è abbastanza semplice: è molto più facile, di fronte al realizzarsi di condizioni migliori di quelle attese, cambiare le azioni e fare meno sacrifici. Chi invece prefigura ai propri interlocutori uno scenario migliore e prende decisioni conseguenti, di fronte al verificarsi di quello peggiore perderà credibilità.

Per scampare al peggio tutti siamo pronti a fare di tutto.
Uscireste di casa se vi dicessero che sicuramente sarete aggrediti, picchiati e derubati?

Come vi dicevo non ho risposte a queste domande, ma se volete posso condividere con voi le linee guida che mi fanno navigare in mezzo a tutte queste riflessioni, che sono queste:
– Accetta ma non rassegnarti.
– Sii gentile con te stessa e gli altri.
– Ammetti le tue emozioni.
– Informati e pensa con la tua testa.
– Abbi fede.
– Non rinunciare alla tua e alla altrui libertà.

 

 

Io Canto.

“Io canto” è ciò che ripete Laura nella bellissima poesia che ha scritto alla fine del suo percorso. Laura è una donna che ho avuto il piacere di accompagnare come terapeuta per un pezzo del suo percorso nella vita.
In genere chiedo ai miei pazienti, quando sentono di aver finito il loro percorso di psicoterapia, di portare qualcosa che rappresenti la strada fatta insieme. Chiedo loro di essere creativi, ognuno come può, ognuno come sente nelle proprie corde, di provare a condensare in un’immagine, un oggetto una produzione propria, quella che è stata la loro esperienza del percorso di psicoterapia.
Voglio condividere con voi questa bellissima poesia di Laura, da lei scritta e regalata a me e anche a voi e a tutti coloro che vorranno leggerla.
Grazie Laura per la strada fatta insieme.

Ciò che sono io canto
Ciò che accade

La pianta di Datura che altissima svetta.
Piena di fiori violetti,
portata dal vento nell’angolo del vaso.
Ci voleva la terra,
e c’era, per il seme.

Le cose che non vanno come vuoi tu
Io canto
vanno come vanno
Teresa non prende la sufficienza in latino,
Gian non mi fa il regalo che vorrei
E le sue mani, io canto.

Il cielo rosa di fine estate
La mia bici che pedala veloce padrona delle strade
Le risate intorno a un tavolo
La luna e tutte le sue facce tutte belle.

Il senso del giusto
Io canto
Quando, perduta, tutto era scomparso
Essere quella che sono.

Acqua di sicuro sono
Acqua che scorre e acqua ferma

Sono bosco attraversato dall’odore dell’alba
e foglia che ride leggera e presto si staccherà

Sono quel vecchio all’angolo della strada stanco e curvo
e la bimba saccente che lo guarda

La voce che urla da quella finestra e poi si placa
E questo bruco io sono che non sai se diventerà farfalla, appeso alle foglie di Datura.

Sono i tuoi occhi umidi mentre mescoli il caffè
labbra appassionate che aspettano al portone

Sono la prima luce che accende la scogliera e scalda subito.
Sono quella che sono
Io canto
Nè più nè meno di quella che potrei essere

La morte non separa, non cancella.

Molte persone entrano nel mio studio ferite, una di queste ferite può essere un lutto, una perdita, un allontanamento da una relazione importante. Quando Marco è venuto da me, aveva perso da non molto la propria moglie. Devo dire che gran parte del lavoro di rielaborazione del lutto lo aveva già fatto da solo, gli serviva solo qualcuno che lo accompagnasse e lo aiutasse ad autorizzarsi nuovamente a godere pienamente della bellezza della vita, per sé e per i suoi figli. Nel suo percorso ha imparato a mettere insieme dolore e gioia, amore e dispiacere, morte e vita, come opposti, che in realtà si completano e arricchiscono a vicenda.

Marco è uno scrittore e, grazie alla scrittura, dà voce in un modo meraviglioso, intenso e profondo ai suoi pensieri, le sue emozioni e il suo mondo interno. Così, ho chiesto a Marco di poter condividere con voi questo suo post, pubblicato un paio di giorni fa, che mi ha commossa, aprendomi il cuore:

“Ieri sera mi hanno chiesto, con tanto amore, se gli auguri per il nostro anniversario fossero graditi o se portassero tristezza.
Soltanto in quel momento mi sono reso conto che dal giorno del mio matrimonio sono passati vent’anni.
Una vita, più vita di quanto ne abbiano vissuta i miei figli.
Ho risposto che si, sono graditi, perchè ciò che di bello ci viene donato va celebrato, al di là del dolore, e nulla è più bello di una persona che si dona ad un’altra. Nulla è più bello di chi completa il dono di sé donando la vita ad altri, lasciando traccia del suo amore nell’abbraccio che i nostri figli mi danno. Una meravigliosa carezza a otto mani: le nostre e le sue.
Voglio condividere con voi tutti due particolari del mio ricordo, due aspetti di una vita vissuta per intero anche se finita troppo presto.
Il primo è il sorriso.
È per questo che non sono triste, anche se di motivi per esserlo potrei trovarne, anche se ricordare mi porta sempre a quell’ultimo momento che di allegro proprio non ha nulla. Quel sorriso mi ha accompagnato per anni, nascondendosi così raramente. Forse la più grande intimità che abbiamo avuto sono stati i momenti, brevi, in cui il suo sorriso si è spento a causa di troppe prove troppo amare. Sorrido perché in me e nei miei figli continua a sorridere lei. Non farlo sarebbe un tradimento.
Il secondo è la fame di futuro, la gioia di vivere.
Una incrollabile gioia di vivere che come lascito ci ha chiesto di onorare la vita che abbiamo, di continuare a costruire, con fiducia, insieme. Un dolcissimo ordine, l’invito un po’ imperativo ad amare, ad amarsi, a riempire la vita che ci è data d’affetto e di dolcezza. L’amore, la gioia, la vitalità del cuore, sono un bene contagioso che non è facile lasciare in eredità. E che non è nemmeno così facile ricevere in eredità perché ci spinge oltre, ci invita a ricominciare senza dimenticare, a superare un senso di colpa che non ha ragione d’essere.
Così oggi, ricordando le promesse che ci siamo scambiati e onorando il suo lascito, festeggio con voi e vi ringrazio perchè mi aiutate ad obbedire a quell’ordine gentile. Spero di dare altrettanta gioia, forza, sorriso e speranza a tutte le persone che a vario titolo stanno accettando il mio amore, che lo alimentano e lo ricambiano incarnando per me la gioia di vivere.
Sorrido alla vita, dunque, e a tutto l’amore che porta con sè.
Sorridete anche voi, le farà sicuramente piacere.”

Ritratto Terapia

scrivania

★ PROVATO IN PRIMA PERSONA E CONSIGLIATO DALLA PSICOTERAPEUTA STEFANIA COLOMBO ★ https://www.micaelazuliani.com/ritrattoterapia

Io e la dottoressa Stefania Colombo, psicoterapeuta ad indirizzo analitico transazionale e bioenergetico, dello spaziopsicoterapia a Milano, abbiamo deciso di creare dei progetti insieme in cui la fotografia e la psicologia lavorano per un fine comune: la terapia e il benessere delle persone.
Per poter comprendere meglio come lavoro, ha provato di persona il Ritratto Terapia, sotto una sua recensione.
“Oggi ho incontrato per la prima volta Micaela Zuliani, sebbene sapessi già come lavora da diverso tempo non avevo mai avuto il piacere di fare una chiacchierata con lei. Sono andata a casa sua pensando di rimanerci un paio d’ore e alla fine ci sono rimasta quasi per tutto il pomeriggio. Ci siamo raccontate di noi e dei nostri progetti professionali, di che cosa significa per noi fare terapia. Sembravamo due bambine emozionate nel ritrovare nell’altro gli stessi punti di vista, le stesse idee, la stesse riflessioni sulla terapia, l’arte e il potere della comunicazione. Fino a qua tutto bene, poi ho voluto sperimentare,come sempre faccio, su di me il suo approccio prima di poterlo proporre ai miei pazienti. Così mi sono fatta fotografare.
Per me e il mio narcisismo non è stato semplice, perché sapevo che Micaela non è alla ricerca delle foto belle, ma è alla ricerca delle foto vere. 
Wow… li ho potuto avvertire veramente la potenza del suo approccio e di come attraverso il suo occhio intuitivo, attento e sensibile Micaela ti accompagni e faccia luce su quegli angoli più nascosti che sono dentro di te.Ti tira fuori, ti mette a nudo, (anche se stai posando vestita), E poi ti guarda con il suo sorriso bellissimo e ti dice: ”guarda che sei tu, ti piaci?”
Ed è difficile, perché NO a volte non ti piaci, ma sei così e sei vera, E ti riconosci vera.
Ho visto di me cose che conosco e che ancora dopo tanti anni di terapia faccio fatica ad accettare, come la mia difficoltà a lasciarmi andare completamente, ho incontrato la mia sensualità di cui ancora mi vergogno e mi spaventa, e la mia fragilità. Ed ho di nuovo avuto la conferma di come il nostro corpo comunichi più di ogni altra cosa e di come parli di noi stessi, andando oltre i nostri costrutti mentali, oltre quello che noi ci raccontiamo di noi.
Micaela, attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica ti vede (veramente) e quindi tu ti vedi.
E mi è venuto in mente di come il bambino si riconosce e costruisce la propria identità attraverso il rispecchiamento con la madre e attraverso l’immagine che la madre gli rimanda di lui.
E di come l’essere umano sia come un’opera d’arte bellissima e come un’opera d’arte prende significato quando c’è qualcuno che la guarda.
Micaela mi ha chiesto di scrivere un commento a caldo e questo è quello che mi è venuto, ma io credo che il lavoro fatto oggi mi lavorerà dentro ancora per un po’…”

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Dimmi, mamma.

Dedicato a mia mamma che mi ha dato i superpoteri.

L’altro giorno mia figlia Sofia si è seduta accanto a me sul divano e, come fosse una domanda del tutto naturale, mi ha guardata e mi ha chiesto:
“Dimmi, mamma: perché hai voluto diventare mamma?“
IO, tergiversando: “Che cosa vuoi dire?”
LEI: “Ma mamma, non capisci? Perché hai voluto fare la mamma?”
IO: “Capisco benissimo, ma mi fai una domanda alla quale non ho mai veramente pensato…
Dunque, la prima volta, intendo dire la prima volta che sono diventata mamma, cioè quando ho avuto te,
credo di aver voluto diventare una mamma perché mi sembrava bellissima l’idea di potermi occupare di una piccola creatura di cui sarei stata responsabile. E anche se la cosa un po’ mi spaventava, ero sicura che mi avrebbe fatto crescere enormemente.”
LEI: “In che senso, mamma? Non eri già grande quando hai avuto me?”
IO: “Grande di età sì, ma quello che intendo dire è che avere avuto te è un’esperienza bellissima, e come tutte le esperienze nuove che facciamo, mi ha fatto crescere in tante cose.”
LEI: “Quali cose?”
IO: “Beh, quando sono diventata mamma, tanto per cominciare, ho capito che puoi volere talmente bene a qualcuno che ti sembra che ti scoppi il cuore. E tutto quel bene è come un super potere che ho dovuto imparare a usare perché ti arrivasse nel modo giusto.”
LEI: “Come i supereroi devono imparare a usare il loro superpotere altrimenti fanno casini?”
IO: “Esatto! È proprio come per i supereroi: un giorno ti svegli e hai un nuovo superpotere, quello delle mamme. Ma, come un supereroe, non sai bene cosa fartene, e nemmeno sai se lo vuoi tutto, quel potere, perché vuol dire anche tante responsabilità.”
LEI: “Forte! Pero tu l’hai voluto, vero mamma?”
IO: “Certo, ma ho dovuto imparare a usarlo. Anche adesso non sono bravissima, a volte lo uso troppo.”
LEI, interrompendomi: “Sì sì, come quando mi sgridi per niente e vuoi che faccia come dici tu.”
IO: “Più o meno… A volte mi dimentico di averlo.”
LEI: “Ma allora le mamme sono invincibili come i supereroi?”
IO: “No, solo l’amore per i loro figli è invincibile, ma loro non lo sono per niente. Anzi, le mamme hanno tante paure.”
LEI: “Di che cosa hai paura mamma?”
IO: “Di tantissime cose.”
LEI: “Io lo so di cosa hai paura: hai paura di perdermi.”
IO: “Esatto! Come fai a saperlo?”
LEI: “Perché, per esempio, quella volta da piccola che sono uscita dal negozio e non mi trovavi più e poi sono tornata con un fiore per te, tu mi hai abbracciata forte forte e mi hai detto che avevi avuto tanta paura, e io la paura la vedevo nei tuoi occhi.”
IO: “Noi mamme abbiamo sempre paura di perdere i nostri figli. Non solo abbiamo paura che vi capiti qualcosa, ma abbiamo paura che a un certo punto, in genere quando non avete più bisogno di noi, smettiate di volerci bene.”
LEI: “Mamma, io ti vorrò per sempre bene, E avrò sempre bisogno di te.”
IO: “No, tesoro, arriverà un momento in cui tu potrai vivere la tua vita anche senza di me.”
LEI: “No, mamma. Ma quando? Perché?”
IO: “Quando mi avrai messo nel tuo cuore e avrai assorbito tutto il mio superpotere.”
LEI: “Ma fare la mamma è bello?”
IO: “Bellissimo, amore mio. La cosa più difficile ma più bella ed entusiasmante che abbia mai fatto.”
LEI: “Ma allora perché ci sono donne che non sono mamme?”
IO: “Non tutte le donne hanno la fortuna o il desiderio di avere un figlio. Ma tutte le donne possono essere mamme, in un modo o nell’altro. Io ho avuto la fortuna di avere voi due, ma si può essere mamme in tanti modi.”
LEI: “Come le maestre? Quando ero all’asilo Adele mi coccolava come una mamma.”
IO: “Come le maestre, le pediatre, le zie, la nostra vicina che ti porta sempre le caramelle che ti piacciono, la tua madrina…”
LE: “Anche tu sei un po’ mamma dei tuoi pazienti?”
IO: “Sì, esatto. E poi possiamo essere un po’ mamme anche di noi stesse.”
LEI: “Come?”
IO: “Prendendoci cura di noi, volendoci bene, parlandoci e amandoci come fa la mamma.”
LEI, con aria furbetta: “Anche sgridandoci come fa la mamma?”
IO: “Solo se ci sgridiamo con amore.”
LEI: “Sì, ma a volte tu mi sgridi forte.”
IO: “La mamma ha il superpotere della mamma, che è quello di dare amore e preparare suo figlio per la vita, ma i figli hanno il superpotere dei figli, che è quello di essere persone migliori dei propri genitori per non ripetere i loro errori e perdonarli se hanno sbagliato.”
LEI: “Come quando ti arrabbi e diventi la mamma mostro e poi mi chiedi scusa perché hai esagerato?”
IO: “Esatto!! E se io imparo a perdonare la mamma mostro spero che anche tu potrai perdonarla.”
LEI: “Mamma, io ti ho già perdonata, ti ho sempre perdonata, sei tu che non ti perdoni.”

Stefania e Sofia

Chiedi alla vita ciò che ti manca con fiducia e lo otterrai

WhatsApp-Image-2018-09-30-at-09.30.07-776x310Quel giorno ebbi coscienza per la prima volta che la vita può essere generosa. […] Nei momenti più duri della mia vita, quando mi sembrava che si chiudessero tutte le porte, il sapore di quelle albicocche mi torna in bocca per consolarmi con l’idea che l’abbondanza è a portata di mano, se la si sa cercare.”
(Isabel Allende)

Mi capita spesso di sentire i miei pazienti lamentarsi per le cose che la vita non può più offrire loro.

C’è chi dice di essere ormai vecchio, chi sostiene che l’amore è sempre più scarso, chi non ha abbastanza soldi, denaro molti invece si lamentano perché a mancargli è il tempo.

Nell’era dello spreco e del consumismo più sfrenato, si è creata una vera e propria cultura della mancanza. Tendiamo sempre a sottolineare ciò che ci manca e che potremmo avere se solo avessimo più tempo, più denaro, più salute, più bellezza, più coraggio.

Rare sono le persone che notano e sottolineano l’abbondanza che c’è nella loro vita, sul piano materiale, affettivo o della salute.

Questa miopia è all’origine di  molti conflitti e rivela una scarsa conoscenza delle leggi energetiche che governano la materia, la vita e l’energia.

La convinzione che la vita sia scarsa: d’amore, di ricchezza, di gioia, di sessualità, d’intimità e di passione e che c’è da lottare, faticare o accontentarci, crea una rete di tensioni nel corpo e una sottile cappa di grigiore e delusione che ci avvolge filtrando l’esperienza del momento e leggendola con gli occhi spenti del passato. Anche temporanee soddisfazioni e conquiste non scalzano mai questa radicata convinzione che l’abbondanza non è possibile. O che non la meritiamo.

Questo alone che ci avvolge non permette di aprirci veramente alla vita, ma soprattutto ci rende miopi rispetto alle innumerevoli possibilità che ci circondano.

Vedere sempre ciò che manca distoglie la nostra attenzione da ciò che c’è.

Diventando consapevoli di questa cappa e dei suoi effetti e della fondamentale falsità delle sue premesse, liberiamo la nostra gioia di vivere e la capacità concreta di manifestare abbondanza e prosperità nella nostra vita

Quello che accade spesso è che In realtà non è la vita ad essere scarsa di opportunità per noi, ma siamo noi ad autoboicottarci.

Se da una parte, desideriamo attirare nella nostra vita più abbondanza, se vogliamo più amore, più salute, più tempo, più soldi, più intimità unaltra parte di noi  ne ha paura, perché spesso sono le possibilità a spaventarci più che le impossibilità.

Se qualcosa è possibile infatti sta solo a me mettermi in gioco per ottenerlo senza più potermi nascondere dietro falsi alibi.

Vedere le possibilità ci restituisce la responsabilità sulla nostra vita…. ci dice che la nostra felicità o infelicità dipende solo da noi

Il nostro  atteggiamento ambivalente invece attira nella nostra vita esattamente ciò che crediamo: cioè la mancanza diventa realtà.

Se penso che l’amore scarseggia faticherò a trovare un partner, se credo di avere poco tempo faticherò a ritagliare spazi per me. Se penso che c’è poco lavoro, faticherò a trovarne uno.

Ho conosciuto molte persone che partendo da una reale situazione di mancanza (di soldi, di amore, di tempo, perfino di salute) si sono costruite una vita piena e felice. Hanno creduto nell’abbondanza della vita e nella forza creativa della loro mente e del loro essere.

Non si sono arresi alle convinzioni negative proprie o degli altri. Esiste in ognuno di noi, un potere creativo in grado di giocare con l’energia della materia, e della vita di cambiare in modo decisivo le circostanze avverse.

L’esperienza non è ciò che ci accade, è ciò che facciamo con ciò che ci accade.

Stefania Colombo

 

SONO UNA MAMMA

Sono una donna e ho due bimbi ma non per questo sono madre….
Sono madre quando guardo i miei figli e sento l’amore che ho per loro e sento anche la paura che non sia abbastanza.

Sono madre ogni giorno quando cerco di essere perfetta nel mio compito senza tuttavia riuscirci.

Sono madre quando cerco di arrivare dappertutto e puntualmente non ci riesco e mi scontro con i miei limiti.

Sono madre quando  a volte devo dire dei no ai miei figli anche se ne soffriranno.

Sono una madre quando mia figlia, che ora ha 7 anni e dei gusti davvero kitsch, mette una maglietta che a lei piace molto e a me proprio no, e io le dico lo stesso:” bellissima, amore mio”

Sono una madre quando mi sento vulnerabile perché impotente nel proteggere i miei figli dai dolori della vita

Sono una madre quando mia figlia mi dice: ” Sei cattiva e io non ti voglio più ”, ma io non le credo.

Sono una madre quando piango perché  ho paura di commettere gli stessi errori di mia madre.

Sono una madre quando guardo mia  madre e la capisco e capisco i suoi limiti

Sono una madre quando, anche se non sono capace, gioco con mio figlio

Sono una madre quando porto a letto i miei bambini (così poi vediamo un film) e mi addormento con loro.

Sono una mamma quando per strada, mi sembra di riconoscere negli occhi a mandorla di una bambina, la figlia che io non sono riuscita ad avere e mi incanto. E il mio cuore piange.

Sono madre ogni volta che mi pongo  di fronte alla vita con la volontà di creare ciò che non esiste o di riconoscere un altro essere diverso da me e accoglierlo, un gesto che  a volte si concretizza anche solo nel gesto di cura  verso un’amica o, nel mio lavoro verso le persone che incontro.

Sono madre io donna imperfetta, orgogliosa, narcisista e quindi lo puoi essere anche tu

Puoi essere madre anche se sbaglierai, se hai paura, se assomigli a tua madre o se non gli assomigli, se sei giovane o sei vecchia, se sei bella o sei brutta, se sei incasinata.

Puoi essere madre anche se non hai figli..
Madre, ovvero colei che dà la vita, a un qualcosa di diverso da se stessa e riesce ad amarlo.

Stefania Colomb

NON DOVETE PIU’ AZZARDARVI A DIRE:”NON POSSO FARCELA”

Può darsi che ognuno di  noi abbia dei talenti naturali, ma, indipendentemente da quanto siamo dotati, il talento ci lascia a piedi se non sviluppiamo le nostre abilità. Le abilità si acquisiscono, non sono innate come il talento e si sviluppano grazie all’utilizzo e all’esercizio continuo.
Il talento è sostenuto dalle nostre abilità, di per sé vale ben poco.

Se non ci lavoriamo su, non saremo mai capaci di esprimere tutto il nostro potenziale nel modo in cui vogliamo.

Non dobbiamo più azzardarci a dire: “Non posso farcela”.

In questo modo costruiamo un muro interno fra noi e i nostri talenti. Fra noi e la nostra possibilità di riuscire ad esprimere pienamente il nostro essere.

Ogni volta che ci diciamo: “ non posso farcela’’ ci costringiamo dentro una forma piccola, blocchiamo la nostra energia.

Credere che non abbiamo possibilità o peggio ancora abilità o credere che non siamo fortunati è un buon modo per non prenderci la responsabilità dei nostri insuccessi ma è anche un buon modo per rinunciare alla possibilità di un successo.

Nascondersi in un angolo e ignorare le nostre aspirazioni, i nostri talenti, i nostri sogni e i nostri desideri più profondi è sicuramente un modo più sicuro per affrontare la vita che non ci espone a rischi.

Dire “ non ce la faccio” non è sempre una forma di umiltà e accettazione, purtroppo spesso è un alibi per non provarci nemmeno.

Sentire di poter fare di più non è un sentimento di superiorità , è dire sì al nostro potere personale.

Ricorrere al proprio potere personale non significa fare tutto quello che ci passa per la testa ma essere liberi di vivere pienamente le proprie emozioni e sensazioni, di scegliere in autonomia quello che desideriamo essere, ma soprattutto di provare ad essere felici. Significa credere che siamo responsabili della nostra sofferenza, ma anche della nostra felicità che il nostro futuro dipende da noi.

Per realizzare i propri obiettivi molto spesso (ed inizialmente sempre) è necessario uscire dalla propria comfort zone.

La nostra confort zone è delimitata da quelli che noi pensiamo essere i nostri limiti,

I limiti possono essere autoimposti o possono essere limiti che gli altri ci pongono. Ciò nonostante tali limiti funzionano solo se noi ci crediamo.

Ogni volta che ci diciamo: “Non ce la posso fare, non sono capace” stiamo rafforzando un limite della nostra comfort zone, ci stiamo chiudendo dentro ad un’aria di sicurezza ma anche di non crescita.

Pertanto l’invito è quello di non aver paura di andare oltre, di provarci anche quando pensiamo di non farcela, di lavorare sodo per raggiungere i nostri obiettivi. Il cambiamento nasce da un atto volontario, nasce dal coraggio di andare oltre le nostre paure

Stefania Colombo