Anche gli psicoterapeuti piangono.

Ispirato a “Il dono della terapia (I colibrì)” di Irvin D. Yalom, Paola Costa.

Recentemente leggendo il libro sopra citato mi sono imbattuta nelle considerazioni che Irvin Yalom fa sui terapeuti e, siccome le trovo assolutamente vere, vorrei condividerle commentandole con voi.
Perché?
Perché spesso i terapeuti sono figure mitizzate e ancora più spesso, la gente e molti dei nostri pazienti, pensano che, in virtù della professione che svolgiamo, siamo capaci di affrontare efficacemente ogni situazione della vita, e non soffriamo per le stesse pene di ogni essere umano.

NON E’ COSÌ!

1) Molto spesso i terapeuti sono persone che soffrono la solitudine.
Scrive Yalom “La psicoterapia è una vocazione impegnativa, e il terapeuta di successo dev’essere capace di tollerare la solitudine, l’ansia e la frustrazione, che sono inevitabili nel suo lavoro. È un paradosso formidabile che gli psicoterapeuti, sempre alla ricerca di intimità con i loro pazienti, debbano affrontare la solitudine come uno dei principali rischi della professione. Eppure troppo spesso sono creature solitarie, che passano tutta la giornata lavorativa rinchiusi in sedute con un paziente alla volta e raramente vedono i colleghi, a meno che non si sforzino di perseguire qualche attività collegiale nella vita.
Sì, certo, le sedute quotidiane sono imbevute. di intimità, ma è una forma di intimità non sufficiente a uniformare la vita del terapeuta.”

Inoltre aggiungo, questa forma di intimità pur essendo un’intimità nutriente, non è mai caratterizzata da uno scambio alla pari data la natura del rapporto:
“Una cosa è dedicarsi a un altro, una cosa completamente diversa è intessere rapporti alla pari per se stessi e per l’altro.”

Troppo spesso noi terapeuti trascuriamo i nostri rapporti personali. Il nostro lavoro diviene la nostra vita. Questo accade perché spesso il nostro lavoro coincide con la nostra passione e non potrebbe essere diversamente, a mio parere.

Concordo con il pensiero di Yalom che dice che alla fine della giornata lavorativa, dopo aver dato tanto di noi stessi, a volte ci sentiamo svuotati del desiderio di ulteriori rapporti. Inoltre i pazienti sono così grati, così adoranti, così idealizzanti che corriamo il rischio di apprezzare meno i membri della famiglia e gli amici, meno disposti a riconoscere la nostra onniscienza ed eccellenza in tutte le cose.

2) La concezione del mondo dello psicoterapeuta è di per sé isolante.
“Spesso perdiamo la pazienza verso i rituali sociali e la burocrazia, non riusciamo a sopportare rapporti fugaci e poco profondi e il chiacchiericcio di molte riunioni sociali.
In viaggio, molti di noi evitano il contatto con gli altri o tengono nascosta la loro professione, scoraggiati dalle reazioni pubbliche distorte nei nostri confronti.”

Personalmente non rivelo mai il mio lavoro in prima battuta perché, purtroppo, la figura dello psicoterapeuta incute ancora un po’ di soggezione a causa di falsi pregiudizi che ci attribuiscono, tipo presunte capacità di leggere la mente o di capire a priori la natura delle persone.

3) Spesso noi psicoterapeuti siamo tormentati da dubbi, e ci facciamo mille domande.
Non sappiamo a priori risolvere i dilemmi della vita dei nostri pazienti e spesso anche noi dubitiamo dell’efficacia del nostro lavoro.
Figuriamoci se abbiamo la soluzione ad ogni problema e nemmeno sappiano leggere ed interpretare la mente dei nostri pazienti.

Se il terapeuta non è un completo narcisista inconsapevole (ce ne sono purtroppo ancora alcuni) spesso è un essere dubbioso e dedito all’autoriflessione. Proprio la natura della nostra forma mentis, che ci guida nel nostro lavoro, a volte ci si ritorce contro. Potremmo faticare a stare nella leggerezza e tendiamo a leggere ed interpretare ciò che ci accade o accade ai nostri cari, più del dovuto.
A volte possiamo essere molto critici verso noi stessi.

4) fare lo psicoterapeuta non significa essere ricchi. Il mestiere del terapeuta non frutta tantissimi soldi. Non scegliete di fare i terapeuti per una questione economica. Sebbene questo lavoro possa assicurarvi una stabilità economica e un tenore di vita più che soddisfacente, occorrono anni per costruirsi questa professione e di conseguenza anche una stabilità economica.

Inoltre, bisogna considerare che il mestiere del terapeuta implica la costruzione di profonde relazioni intime che, sebbene appaganti e rigeneranti, chiedono anche una messa in gioco notevole da parte del terapeuta stesso.
Questo significa che, per dedicarsi bene a questa professione non è possibile avere in terapia un considerevole numero di pazienti (sebbene io sappia che esistono colleghi che arrivano a fare anche 8/ 10 sedute al giorno).
Non è possibile prendere in terapia più pazienti solo per avere un’entrata maggiore.
Molti terapeuti come me si dedicano principalmente all’attività clinica che certo non fa diventare milionari.

5) Gli psicoterapeuti non sono dei perfetti genitori o dei perfetti partner.
Al contrario penso che a volte sia proprio faticosa la posizione degli affetti che ci stanno accanto. Siamo spesso persone complesse, meditabonde e un po’ narcisiste… direi “intense”.
Inoltre, siamo umani e come tali esseri imperfetti, anche se in teoria sapremmo come agire, fuori dal ruolo di terapeuti, sbagliamo… come dice il vecchio detto:” Predichiamo bene e razzoliamo male”.

6) Gli psicoterapeuti non scelgono questa professione solo perché vogliono aiutare gli altri, spinti da un innato spirito altruistico.
Le ragioni che portano una persona alla scelta della propria professione sono complesse, figuriamoci quelle che portano alla scelta di questa professione. Il nostro lavoro non è un lavoro semplicemente di cura dell’altro. Spesso chi sceglie questa professione ha una storia familiare complessa alle spalle, ha imparato fin da piccolo a prendersi cura di qualcun altro per sopravvivere, ha sviluppato uno spirito intuitivo per cavarsela. In genere lo psicoterapeuta è una persona ferita, che cerca una propria guarigione anche attraverso la cura dell’altro. È proprio per questo che ogni terapeuta è chiamato ad affrontare seriamente un percorso di terapia professionale prima e durante tutta la sua professione. Un percorso di consapevolezza che lo porti a distinguere le proprie ferite da quelle del paziente, che lo aiuti a sciogliere i nodi della propria storia per poi potersi prendere cura delle storie dei propri pazienti.

Siamo davvero chi pensiamo di essere?

“Ereditiamo dai nostri genitori l’idea di cosa siamo capaci di fare, cosa possiamo e non siamo sentire, cosa possiamo e non possiamo esprimere, ereditiamo, quindi, l’idea di cosa possiamo essere o diventare.  Sono davvero poche le persone che mettono da parte questa “eredità” per muoversi alla scoperta di se stessi.”
                                                                                                   (Psicoadvisor)

Avventurarsi alla scoperta di chi siamo veramente non è facile, questo perché l’essere umano ha bisogno di identificarsi in un’idea di sé, un’identità che ci siamo costruiti nel tempo, o meglio, come dice la frase sopra riportata, un’identità che si è costruita nel tempo grazie all’influenza delle figure di riferimento fondamentali per noi.
I nostri genitori per primi, e chi è stato importante per noi poi, fungono come specchi rimandandoci fin da piccoli un’immagine, una definizione di come siamo o come dovremmo essere.
Anche se quest’identità ci fa soffrire, o ci imprigiona, o non corrisponde realmente a ciò che siamo veramente, è difficile liberarsene perché, perdere la propria identità e non sapere più chi si è veramente è spiazzante per la mente umana.
Spesso, inoltre, quest’idea non comprende solo le caratteristiche fisiche e psicologiche della nostra persona ma anche ciò che possiamo o non possiamo fare, ciò che possiamo o non possiamo esprimere, cosa possiamo o non possiamo permetterci all’interno delle relazioni.
Molte persone non sanno di saper fare certe cose solo per il semplice motivo che non le hanno mai fatte. Per esempio, cosa vogliamo dire quando diciamo la frase: “Questa cosa non fa per me.”?
Vogliamo dire che abbiamo provato a farla e abbiamo scoperto che non era per noi, vogliamo dire che non l’abbiamo mai fatta, o vogliamo dire che ci hanno insegnato a non farla?
E ancora: quando diciamo la frase: “Io non posso piangere”, a cosa ci riferiamo?
Vogliamo dire che non siamo capaci di piangere, vogliamo dire che ci hanno detto che non potevamo farlo, o che venivamo sgridati, umiliati o allontanati se piangevamo?
In altre parole, sentirsi insignificanti, stupidi o incapaci potrebbe non equivalere a esserlo veramente e potrebbe non essere neppure al modo in cui gli altri ci vedono.
E vale anche per il contrario ovvero, sentirsi perfetti, invincibili, forti, sempre capaci potrebbe non essere una realtà.
Chi siamo dunque veramente, quali sono i nostri punti di forza? Quali sono i nostri difetti? E i nostri limiti e i nostri pregi?
Risulta a questo punto ovvia l’importanza di riappropriarsi del proprio essere, per diventare davvero padroni della propria vita. I passaggi che aiutano in questo viaggio, che è una sorta di ritorno a casa, prevedono la volontà di mettersi in gioco superando le proprie difese e uscendo dalle proprie aree di comfort.
Bisogna affinare la propria capacità di auto osservazione, la consapevolezza su di sé, sui propri bisogni profondi, nonché esercitarsi a praticare l’accettazione dei nostri limiti delle nostre imperfezioni e della nostra umanità.

La psicoterapia può essere un valido aiuto in questo viaggio perché cambiare significa sempre, almeno un po’, agirsi contro: è una sorta di salto nel buio perché richiede di abbandonare certezze consolidate in anni di azioni e pensieri abitudinari, di accettare di perdere quella parte di noi alla quale, per quanto sia fonte di sofferenza, siamo aggrappati con tutte le forze.
Presuppone, insomma, la disponibilità a rinunciare alla protezione rassicurante di un certo modo di pensare, di sentire di agire.
Una fatica che vale la pena fare poiché conoscersi è una sfida appassionante. È il punto di partenza per rincorrere il cambiamento, per andare alla conquista di desideri, progetti e relazioni che desideriamo.
Come penso, cosa sento, attraverso quali occhi voglio vedere il mondo, cosa mi emoziona, come entro in relazione con gli altri, cosa e chi vorrei nella mia vita, sono tutte domande a cui meritiamo di dare noi la nostra personale risposta.

“Un giorno, da qualche parte, ovunque, immancabilmente, tu troverai te stesso, e quella, e solo quella, può essere l’ora più felice o più amara della tua vita.”
                                                                                                 (Pablo Neruda)

Quando riposarsi non basta.

La maggior parte delle persone è convinta che, quando ad esempio attraversiamo un periodo di intenso lavoro, un po’ di riposo e relax possano essere la soluzione al malessere e che ciò basti a ricaricare le batterie mentali. In realtà, non è proprio così.

Spesso andiamo in stress perché non ci sentiamo capaci di affrontare una situazione o perché cerchiamo di affrontare più faccende contemporaneamente.
In queste situazioni un periodo di riposo può dare un sollievo momentaneo, ma non definitivo. Per recuperare energie occorre invece imparare a chiudere gli affari irrisolti, perché la benzina mentale viene consumata nel tentativo di raggiungere obiettivi, siano questi importanti (come grandi obiettivi lavorativi o affettivi, più o meno consapevoli) oppure meno (come mettere a posto finalmente la cantina).
Ogni obiettivo consuma energia mentale, anche quando prendiamo un periodo di riposo. Ma quando viene raggiunto pienamente, come per magia la mente si ricarica.
È esperienza di tutti che, dopo una grande soddisfazione, o quando portiamo a termine qualcosa, anche se fino a un attimo prima si era stanchi, ci si sente invece energici e propositivi.

Ma perché arriviamo a questi momenti di stanchezza e di tensione?

Le cause possono essere molteplici. A volte ci stressiamo perché ci sentiamo coinvolti in situazioni che non riusciamo a risolvere, o peggio, in situazioni in cui non vediamo una via d’uscita.
E’ il caso di alcuni miei pazienti che, pur soffrendo per situazioni negative sul lavoro, non riescono a cambiarlo. O anche di quei pazienti che non riescono a chiudere delle relazioni dolorose.
Spesso, in questi casi, ci si sente incapaci di cambiare o di risolvere perché spaventati e perché non ci si sente davvero in grado o meritevoli di meglio. Questi miei pazienti hanno in genere una bassa stima di se stessi, anche se apparentemente non si direbbe.
È infatti noto che, più ci si percepisce come capaci rispetto a quello che stiamo facendo o stiamo vivendo, più è probabile che raggiungeremo gli obiettivi che ci siamo prefissati, senza rimandare o senza aspettare che altri lo facciano per noi (es. “Sto attendendo che qualcuno mi offra una buona opportunità lavorativa.” –  “Vorrei che anche lui/ lei capisse che non possiamo continuare così.“).

Altre volte invece ci stressiamo perché sovrastimiamo le nostre possibilità e chiediamo a noi stessi troppo, troppo, troppo.
È il caso di quei miei pazienti che vogliono avere tutto sotto controllo o che affrontano più situazioni complesse, contemporaneamente.
Al contrario di quello che si potrebbe pensare anche queste pazienti hanno una bassa stima di sé stessi.
Infatti, il pensiero inconscio che sta dietro al comportamento del controllo o dal voler far tutto, è spesso un pensiero negativo su sé stessi: “Non sono bravo se non sono perfetto, non sono bravo se non arrivo dappertutto“.
In poche parole o sono un super uomo/donna o non valgo nulla.

Se vediamo le situazioni di stress sotto questa luce allora riusciamo a comprendere che la soluzione non è il riposo, ma l’amore verso se stessi, il prendersi cura di più di noi, della nostra energia emotiva e non solo di quella fisica. Energia emotiva che spesso viene corrosa da pensieri negativi su di noi e sulle nostre capacità.
Energia negativa alimentata dal chiedere a sé stessi obiettivi impossibili.
Dobbiamo imparare ad allentare le tensioni della nostra vita concedendoci delle pause di morbidezza e di coccole: una chiacchierata con un amico, un momento di relax facendo qualcosa che ci piace davvero.
Ma soprattutto dobbiamo credere in noi stessi, nelle nostre capacità, dobbiamo trattarci con gentilezza e supportarci con parole incoraggianti quando vediamo che siamo in difficoltà.

Storie d’Amore

“Di tutte le storie d’amore che conosco la nostra è la mia preferita.”

In tutti questi anni di lavoro nel mio studio ho ascoltato tantissime storie d’amore.
Perlopiù erano storie di amori perduti, o travagliati, o desiderati.
Qualche volta ho sentito storie di amori evitati per paura, spesso ho ascoltato storie che dovevamo essere d’amore, ma in realtà non lo erano. Ci sono state anche storie di amori finiti e alcune di amori appena iniziati. La realtà è che di storie d’amore ce ne sono di tantissimi tipi ed ognuno di noi ha una propria storia sull’amore.

Se desideriamo comprendere l’amore dobbiamo capire le storie che dettano le nostre credenze ed aspettative in amore. Queste storie, che cominciamo a scrivere da bambini, predicono, una volta dopo l’altra, i modelli delle nostre esperienze di innamoramento. La storia ha inizio dalla nostra primissima storia d’amore ovvero quella con i nostri genitori.

Silvia racconta di come si sentiva legata a suo padre che la amava teneramente. Per lei suo padre era tutto il suo mondo, soprattutto perché la madre era una donna frustrata, nervosa e distante (sue parole). Sua madre era invidiosa del rapporto che papà aveva con lei (sempre sue parole), perché sapeva che fra di loro c’era un’intesa speciale.
Silvia era innamorata di suo padre e si sentiva scelta al posto della madre. Così, ancora oggi, Silvia cerca uomini che la scelgano per ritrovare quell’amore. Purtroppo, spesso, si innamora di uomini già impegnati in un’altra relazione che la fanno sentire speciale, ma che la usano per riempire quel vuoto che sentono nella relazione con la propria compagna, proprio come forse faceva suo padre…

Ognuno di noi ama così come è stato amato o come ha visto amare.  Non sempre queste storie sono storie di amori felici ma per fortuna possiamo apprendere come riscriverle, arricchirle, cambiarle.

Credo che più di ogni altra cosa, la chiave della compatibilità con un partner stia nell’incontro delle due storie. Ecco perché, avere la consapevolezza delle nostre storie d’amore, è fondamentale per comprendere come cerchiamo i partner più funzionali con le nostre credenze e narrazioni .

Luca fin da piccolo si è occupato e preoccupato della felicità della madre, una donna fragile e spesso depressa a causa dei dolori che il marito (papà di Luca) le faceva patire in quanto marito infedele e distante. La madre di Luca tendeva a riempire il suo vuoto d’amore con quello che spontaneamente ed inevitabilmente il figlio le offriva, dando a lui (anche se inconsapevolmente) la responsabilità della la sua vita, non essendo in grado di avere un confronto con il marito e responsabilizzarsi per l’infelicità che provava nel suo matrimonio.
Ancora oggi Luca si innamora di donne poco indipendenti che tendono a responsabilizzarlo della propria felicità.

Spesso le storie d’amore che portiamo dentro di noi sono differenti dalle storie che a parole desideriamo. Ciò che ci spinge a scegliere il nostro partner è l’esperienza amorosa che abbiamo realmente vissuto che, oltretutto, determina la nostra capacità di amare noi stessi e gli altri.

La cosa che i miei pazienti in genere fanno più fatica ad accettare è che i partner non si scelgono a caso, non capitano, Freud scriveva: ”Non ci scegliamo in modo casuale. Noi incontriamo persone che già esistono nel nostro subconscio”.
Scegliamo persone adatte ad interpretare il ruolo del nostro copione amoroso, persone che calzano perfettamente con la nostra storia.

Ogni relazione è dunque un incontro di storie ma è anche una nuova storia che si può scrivere insieme, perché ognuno di noi, quando diventa consapevole della propria storia d’amore, può scegliere davvero come trasformarla, e il partner ci può essere d’aiuto in questo.

Ci si ama, ci si odia quando si litiga. Si fa pace, si parla, si scherza, si discute, ci si mette alla prova. E ancora ci si dà conforto, ci si stimola a migliorare e ci si confida. Si vivono insieme momenti brutti, ma anche quelli belli. Si partecipa ai sogni e gli obiettivi dell’altra persona e si condividono i personali fardelli. Ci si vuole bene in modo speciale, si viaggia, si ride, si piange e ancora tante altre cose che danno vita a storie sempre nuove. Anche se una relazione finisce può sempre essere una buona occasione d’apprendimento, se mettendo da parte i nostri pregiudizi e le nostre idee predefinite gli permettiamo di insegnarci qualcosa.

Essere consapevoli del nostro modo di amare, dei nostri limiti e dei nostri punti di forza in amore, ci aiuta ad essere aperti ad apprendere dal partner ciò che noi non sappiamo sull’amore, ciò ci aiuta ad Integrare i nostri copioni, arricchendoci reciprocamente. Tutto questo ovviamene implica impegno e apertura all’altro, oltre ogni volontà di salvaguardare i propri confini sicuri, le proprie idee e aspettative preconcette. Solo da questa apertura può nascere quella capacità che ci aiuta a scrivere una nuova storia d’amore: la nostra storia d’amore.

Se giudichi le persone…

➡ “Se giudichi le persone non avrai tempo per amarle.”Madre Teresa di Calcutta💭Stavo perdendo la fede negli esseri umani, nella loro capacità di essere umani anche nei tempi duri, nella loro curiosità verso l’altro anche e soprattutto quando è diverso, nella loro intelligenza di andare oltre un primo giudizio spesso dettato dalla paura.Per fortuna, però, il mio lavoro mi porta a stare in intimità con le persone. Persone che tutti giorni mi fanno entrare nella casa del loro animo, svelandomi la loro fragilità ma anche la loro forza di esseri umani. Un’umanità fatta anche di angoli bui e tormentati, fatta di resistenze e paure, di contraddizioni e paradossi.Così, mentre la fuori ci si distanzia gli uni dagli altri, accusandosi o etichettandosi a vicenda per paura o per altro, nonostante lo spirito dovrebbe essere natalizio, io penso ai miei pazienti e mi torna la fede nelle persone.Così quest’anno i miei auguri sono rivolti principalmente a loro, con i miei più sinceri ringraziamenti per ciò che ogni giorno mi insegnano e ricordano.Ho pensato di presentarveli i miei pazienti, chissà che non ridiano un po’ di speranza, tolleranza e fede nell’umanità anche a voi…(i nomi ovviamente sono di fantasia ma le loro storie sono vere al cento per cento).Mario dal Natale scorso ha trovato lavoro, ha adottato un figlio, ha messo fine ad una relazione finita da tempo.Ringrazio Mario perché mi ha insegnato che si può cambiare la propria vita e avere il Natale che vogliamo.Anna ,invece, guerriera napoletana, si mette il rossetto rosso quando è triste, ha imparato ha sentirsi fragile e sola e anche se ha paura sta aprendo il suo grande cuore, lei mi ricorda che non bisogna sempre essere forti per forza.Giulia anni fa ha lasciato il marito che la maltrattava e ora sta imparando a non maltrattarsi lei . Giulia è la donna più simpatica e autoironica che conosco, mi insegna che volersi bene è una cosa seria ma che non bisogna prendersi troppo sul serio.Vale voleva una casa con il suo fidanzato, che però l’ha lasciata. Il suo cuore si è rotto, ma lei lo ha raccolto e curato e poi si è comprata casa da sola, mi ha insegnato ad andare avanti.Antonio quest’anno è quasi morto per un’emorragia celebrale, ma ha lottato come un leone per non lasciare la sua famiglia ed è rinato, mi ricorda che essere vivi non è scontato e bisogna godere della vita e dei propri affetti ogni minuto.Mattia è fermo e, anche se sa che la fuori c’è una vita che lo aspetta, ha paura di andare a prendersela. Lui mi ricorda che la libertà spaventa, ma anche che la libertà non può essere barattata con nulla.Niccolò é un giovane uomo che ha imparato a camminare sulle sue gambe e ad essere forte senza perdere la sua sensibilità e profondità, Niccolò ricorda a me e ha tutte le donne che gli uomini gentili e forti esistono.Laura, nonostante la tossica relazione che ha con il marito, non ha mai perso la speranza nell’amore e la sua energia vitale, lei è l’esempio che nessuno può spegnere il tuo fuoco.Maddalena ha affidato suo figlio alcolista alla vita e a 60 anni ha imparato ad essere una madre amorevole. Mi ha insegnato che perdonarsi e perdonare è fondamentale e che non è mai troppo tardi per rimediare ai propri errori.Monica è venuta da me per essere una mamma migliore per i suoi figli. Era spaventata dalla mamma mostro che ogni tanto ruggiva dentro di lei. Lei ha imparato che i mostri non esistono davvero e mi ricorda che prima di tutto bisogna aver cura della nostra bambina interna, senza criticarsi e giudicarsi troppo, perché il giudizio chiude le menti e restringe i cuori.Cesare sente che tutta la sua vita è stata inutile e che se non ha qualcuno accanto da accudire non ha senso esistere, ma lui non sa accudire nemmeno sé stesso, così spesso si sente crollare in pezzi. Con lui sto imparando la pazienza di raccogliere quei pezzi per creare un’immagine nuova è meravigliosa.Davide ha perso la mamma da piccolo, lui mi ricorda spesso mio figlio di 5 anni e provo per lui una tenerezza infinita.Anche lui sta riscoprendo questa tenerezza per sé, mi ricorda che devo essere dolce e gentile con il cuore dei miei pazienti e di tutte le persone che incontro.Laila è una ragazza bellissima dentro e fuori, ma non lo sapeva. Si perdeva e si confondeva, ha lottato e non ha mai mollato fino a che non si è ritrovata e presa per mano, ora è una giovane donna pronta a prendere dalla vita tutto ciò che vuole. Grazie a lei ho imparato a ballare anche quando fuori è tanto buio da perdersi.Marisa sembra esile e delicata ma dentro ha la forza di quei bambini che hanno dovuto fare da genitori ai loro genitori. Lei mi ricorda quanto sia importante occuparsi di sé stessi prima di tutto, anche se gli altri vorrebbero farci sentire in colpa per questo.Nando aveva paura e dubitava di tutto persino di sé stesso, l’ansia a volte lo agguantava e ossessionava non lasciandogli scampo, ora però ha imparato a respirare e ad ascoltarsi veramente. Lui mi ricorda che oltre la nostra paura ci aspetta un mondo pieno di possibilità, le stesse che anche Nando ha imparato a darsi e a dare agli altri.Aurora è sveglia ed intelligente pensava che nel mondo non ci fosse un posto per lei, pensava di essere diversa.Ma ora ha imparato che questa diversità è anche un pregio e che nel mondo può prendere il posto che lei vuole, non quello che gli indicano gli altri. Aurora mi ricorda che gli altri non hanno sempre ragione e che ha volte va bene se ci chiamano Ribelli. Grazie AuroraCecilia sa leggere gli animi delle persone, ma il suo per lei era così confuso. Con pazienza ha imparato il linguaggio del suo cuore e ha smesso di ascoltare i giudici che sono nella sua testa. Cecilia è la dimostrazione che il giudizio è spesso pregiudizio e come il famoso principe insegna “non si vede bene che con gli occhi del cuore.”Irene è ferita e protegge il suo cuore, ha perso sua madre da poco e pensava che nessuno potesse più amarla quanto facesse lei. Ma Irene sta imparando a ritrovare quel calore e quell’amore nei piccoli gesti quotidiani. Lei mi ricorda che dentro noi stessi c’è tutto ciò che ci serve. Forza Irene trovarsi l’amore che ti meriti!Antonia ha vissuto nella privazione del piacere e nello sforzo di non poter essere sé stessa, quando molla questa lotta si intravede la meraviglia della sua natura creativa ed intelligente. Lei mi ricorda di mollare e di lasciare che sia quel che sia, infondo è impossibile controllare tutto.

Questi sono molti dei miei pazienti ma non sono tutti. Ringrazio tutti quelli che ho nominato e anche quelli che non ho nominato. Siete tutti nel mio cuore e da ognuno di voi ho imparato qualcosa.

♥️Grazie di essere così meravigliosamente umani, con i vostri tormenti, le vostre contraddizioni e le vostre resistenza, grazie per avermi scelta come guida per il vostro viaggio e di tollerare anche i miei difetti di essere umano.Io so che chi varca la porta del mio studio è una persona “speciale”.Speciale perché cerca dentro di sé le risposte al suo malessere e non lo fa puntando il dito fuori di se’,accusando chi gli sta intorno. Vorrei che tutti, questo Natale ci fossimo un po’ speciali, come i miei pazienti e ci sentissimo un po’ più umani, un po’ più fiduciosi, un po’ più pronti a guardarci dentro per accoglierci e per accogliere gli altri…Tutti gli altri.

BUON NATALE A TUTTI GLI ESSERI UMANI

Foto di Cristina Buldrini Fotografie

Non ci può essere salute senza libertà.

Ho deciso di scrivere questo articolo dopo essere per caso incappata nella lettura di questa frase di Martin Luter King:
“Prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare; ma bisogna prenderla, perché è giusta.”

A differenza di Martin Luter King io non so e non posso dire che la mia posizione sia giusta, ma credo che sia un bene esprimersi per confrontarsi e per creare “cultura”.

Sebbene io non sia un medico, o uno scienziato, o un’esperta di economia o di politica, sono comunque una psicoterapeuta, e posso dire di essere un’esperta di animi umani e di benessere psicofisico. È da questa mia esperienza che nascono queste mie considerazioni, riflessioni, pensieri critici, e da cui nasce anche questo appello a tutti coloro che vogliono ascoltare ed ampliare la propria visione, e confrontarsi.

Non voglio vendere nessuna verità, perché in questo tempo difficile anche per me è complicato distinguere la verità della menzogna, ne’ voglio convincere nessuno perché io stessa sono piena di dubbi. Vorrei solo stimolare una riflessione costruttiva perché si possa costruire un ambiente che promuova il benessere per tutti.

E’ con questo spirito che mi sono posta queste domande: Che cosa significa essere in salute? Cosa significa combattere la morte? La salute dell’essere umano è limitata all’evitamento della malattia o è un concetto che abbraccia più aspetti fino a riguardare il modo in cui stiamo nella vita in senso lato?

In questi giorni mi sono chiesta spesso cosa significhi essere in salute e vivere bene.

Non è facile definire il concetto di benessere, c’è chi lo identifica con la disponibilità di denaro, chi con l’amore, chi con la propria realizzazione nel lavoro, chi con la nascita di un figlio e la formazione di una famiglia, chi con una condizione di buona salute, ma lo sappiamo anche noi, possedere tutte queste cose non significa necessariamente essere felici, o stare bene appunto. Dalla mia esperienza di lavoro con le persone ho appreso che esiste qualcosa di più intenso ed autentico, vero motore del benessere, si tratta della libertà, ovvero della possibilità di sentirsi padroni della propria vita e del proprio destino.
Mi sento di affermare dunque che, per molte persone, il concetto di benessere sia profondamente legato al senso di libertà e di responsabilità personale.

Dato il tempo che stiamo attraversando, il tema del benessere non può non richiamare anche il tema della salute.

Ma cosa è la salute?
L’OMS afferma che per salute si intende uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale.
Tale definizione, che io condivido, non descrive la salute come un concetto “statico”, ovvero come assenza di malattia ma come un concetto “dinamico”, che riconosce cioè lo stato di salute come la possibilità di connessione e armonia a sé stessi, agli altri e all’ambiente in cui viviamo.

Mi chiedo dunque cosa stia succedendo attorno a noi. Possiamo veramente dire di vivere in un tempo in cui si sta promuovendo la salute e il benessere dei propri cittadini? O viviamo in una realtà che, per debellare una malattia ne sta creando delle altre, promuovendo la divisione, la non integrazione delle diversità, l’esclusione e la discriminazione in nome di una sicurezza comune.

La libertà individuale può essere davvero una minaccia per la collettività?
Questa domanda introduce un tema estremamente complesso, ultimamente spesso ridotto a semplicistica polarizzazione tra ottimisti e pessimisti (o peggio, fra negazionisti e allarmisti, o fra ProVax e NoVax.)

Nella ricerca della felicità, sostiene Mill, l’individuo è libero: libero di dissentire dalle idee predominanti, di lottare per affermare la propria singolarità, di respingere qualsiasi conformismo che la società imponga, ma a patto che non arrechi danno agli altri. Si aggiunge inoltre che la divergenza tra diversi punti di vista è alla base di una società aperta, come teorie rivali in campo scientifico, pluralità di opinioni e posizioni che danno la misura della vitalità del dibattito culturale e sociale e che permettono una vera ricerca del benessere del singolo e della collettività.

Pare dunque che la libertà individuale sia fondamentale a patto che non arrechi danno agli altri e  che l’ambiente promuova la possibilità di confronto, di dibattito, agevolando la circolazione di punti di vista differenti e non sostituendosi all’individuo o agli individui definendo a priori (cioè senza tenere in considerazione le diversità e le pluralità), ciò che è meglio per tutti.

Non pare dunque che la libertà del singolo e la sicurezza della collettività siano due concetti necessariamente in opposizione fra loro. A me pare piuttosto siano due nozioni complementari e circolari. Una società sicura è una società che promuove la libertà di ogni singolo individuo, garantisce e tutela i diritti di tutti, promuove e contiene le diversità in un armonioso insieme di differenze che coesistendo fra di loro creano la circolazione di un pensiero costruttivo e positivo che produce e promuove il benessere dei singoli e quindi anche della collettività.
A sua volta, un individuo libero è colui che attivamente ricerca confronti costruttivi, che sa stare e convivere con la diversità nel rispetto del benessere proprio e di quello della collettività. E’ un individuo che si impegna a costruire attorno a sé un ambiente rispettoso per gli altri (tutti gli altri) oltre che per sé stesso.

Da sempre noi psicoterapeuti sappiamo che, se viviamo in luoghi malati e in sistemi malati ci ammaliamo, perché l’essere umano è un essere sociale e il suo benessere non può prescindere da ciò che lo circonda, dagli ambienti in cui vive, dalle relazioni che abita.

In questo momento mi pare che si viva in una società che sfrutta il fatto che, per l’essere umano, spesso la salute fisica sia più importante della propria libertà e della libertà degli altri.
Viviamo in una società che dissemina paura (paura di ammalarsi, paura di perdere il lavoro, paura di fare scelte diverse).
E questa paura ci fa essere divisi, sospettosi, ci fa chiudere. Questa paura ci fa ammalare.
Molti dei miei pazienti si sentono sotto minaccia, manipolati, impauriti, dubbiosi, ansiosi, disperati, sfiduciati, depressi, discriminati.
Molti dei miei pazienti si sono sentiti costretti a scegliere fra la possibilità di lavorare, di studiare, di vivere e la possibilità di esercitare il loro diritto di prendere decisioni riguardo a come curare il proprio corpo.
L’essere umano non si ammala solo a causa di minacce esterne ma anche a causa di pressioni interne. L’essere umano è un essere sociale il cui benessere non può prescindere dal contesto in cui vive e dalla qualità delle sue relazioni.

Siamo dunque sicuri che per guarire dal COVID non stiamo ammalandoci di malattie ben peggiori?

Ti ritrovi spesso nelle stesse situazioni?

Le cose che non vorresti accadessero invece accadono?

“Se continui a ripetere che le cose andranno male, hai buone probabilità d’essere profeta.”
Isaac Bashevis Singer

Tutti noi abbiamo vissuto qualche situazione che ci ha profondamente ferito o spaventato. Possiamo avere queste situazioni ben impresse nella nostra mente o possiamo averle sepolte nel nostro inconscio, ma queste esperienze rimangono nello spazio della nostra anima, come mine inesplose, dalle quali ci sforziamo di tenerci a debita distanza. Tendiamo ad affrontare in punta di piedi le situazioni che ci fanno male, voltando le spalle alla paura e fuggendo da ciò che temiamo, ma tutte le questioni che rimangono irrisolte finiscono per ripresentarsi.
Così, anche senza volerlo, tocchiamo ogni volta proprio quella ferita che più ci spaventa; l’abbandono, la solitudine, il rifiuto, la sensazione di non valere nulla e non essere amabili, il fallimento…

Queste situazioni tendono a riproporsi, come se la vita ogni volta ci ponesse di fronte l’occasione di risolvere quel dolore e di chiudere quella esperienza in un modo più costruttivo. Non cogliere l’occasione, evitare di risolvere la situazione, ci porterà di nuovo allo stesso punto e con lo stesso problema, ma ingrandito. Ogni volta questo mostro diventerà un po’ più grande ed acquisirà potere, nutrendosi della nostra stessa paura.

Ecco alcuni esempi:

– Sara ha 40 anni e tutte le sue relazioni di coppia finiscono male. Ha subito infedeltà, violenza e anche la mancanza di impegno da parte dell’altra persona coinvolta nel rapporto.

Sara teme l’abbandono e questa paura la rende cieca e non le permette di leggere correttamente i segnali che arrivano dal suo partner. Cerca qualcuno che la rassicuri, che le prometta di non ferirla, di non lasciarla, senza rendersi conto che in questo modo pone la sua vita nelle mani dell’altro. Ha paura di restare sola ed è per questo che, finché non avrà superato questa paura, le sue relazioni continueranno a finire male.

– Diego ha 28 anni e non riesce a trovare un lavoro. Ne ha avuto qualcuno, ma sono durati tutti pochi mesi o pochi giorni. Quando si presenta a un colloquio raramente lo richiamano.

Il problema che ha Diego è che ha una grande paura del fallimento, tale paura lo rende terribilmente insicuro e in cerca di rassicurazioni. Finché non affronterà la sua paura non potrà essere convincente

Ma come si esce da questa ripetitività?
Innanzitutto è necessario rendersi consapevoli della propria ferita e della paura che scaturisce da essa. Se ciò non avviene il rischio è di continuare a trascinare ciò che un giorno ha scatenato la paura, senza che oggi ve ne sia davvero motivo. La paura ci allerta di un pericolo imminente contro il quale dobbiamo agire, fuggendo oppure attaccando. Tuttavia, quando diventa un fardello sulle nostre spalle e si trasforma in ansia, essa inizia a condizionare le nostre azioni e persino le nostre percezioni e i nostri pensieri. Quando la paura ci limita e ci causa insicurezze è necessario fronteggiarla.
Un primo passo per affrontare tale paura è scoprire cosa abbia generato la nostra ferita; quale esperienza, situazione passata o quale relazione ci ha condizionati ferendoci.

Ricordiamoci che i nostri primi anni di vita sono quelli più significativi per le esperienze che avremo a seguire, perché formano il nostro carattere, la nostra personalità, l’idea che abbiamo su di noi, sulla vita e sugli altri. Idee e convinzioni che influiranno su il nostro agire e il nostro sentire.

Quando siamo stati feriti, quindi, spesso, eravamo dei bambini, senza gli strumenti necessari per capire ed affrontare la situazione che avevamo davanti. Ci trovavamo In balia degli eventi e delle relazioni, impotenti di fronte a ciò che li generava. Oggi invece, quando queste situazioni si ripresentano, noi le affrontiamo da adultiI, con altre possibilità sia di azione che di pensiero.
Realizzare che oggi possiamo muoverci all’interno di queste situazioni in modo diverso ci aiuta a riscrivere la nostra storia.
Riacquistando il potere sulla nostra vita, come adulti, possiamo dare nuovi significati a ciò ci accade. Spesso il male nasce dal senso che attribuiamo all’evento; i nostri gesti, le possibilità che ci diamo e le azioni che scegliamo di evitare sono ricollegate spesso all’idea con cui abbiamo classificato l‘esperienza vissuta.
Realizzare che oggi siamo degli adulti ci aiuta ad entrare in contatto con il nostro bambino ferito rassicurandolo e a ridimensionare la nostra paura, permettendoci di sentire che abbiamo la possibilità di cambiare gli eventi e il potere di scegliere come stare oggi nella nostra vita e in ciò che ci accade.
A questo punto non ci importerà più di evitare le situazioni che ci fanno soffrire, perché sapremo dentro di noi di poterle affrontare in un modo diverso; esse diventeranno occasioni di crescita e non conferme delle nostre paure più profonde.
E quando non saremo più impegnati a temere il peggio sapremo accogliere il meglio che la vita ci offre.

Paura di morire.

Capita spesso che alcuni miei pazienti vogliano parlare della loro paura di morire.Certo, magari di solito evitiamo di pensarci, ma non è difficile temere la morte.Non possiamo nascondere infatti, che la nostra cultura ci educa molto male da questo punto di vista, mostrandoci la morte come qualcosa di brutto, di negativo, di triste.Naturalmente, ogni essere vivente è pervaso da una spinta che lo porta a vivere e a lottare per la sopravvivenza.La paura di morire nasce principalmente dal nostro desiderio positivo di vivere, di esserci, di esistere. Abbiamo paura che tutto finisca, perché, in fondo, siamo attaccati alla vita con forza.La paura di morire è legata ai nostri pensieri più che a ciò che sta accadendo realmente nella nostra vita.Se stessimo concentrati sulle cose belle che viviamo ogni giorno, mettessimo entusiasmo in ogni azione, lavorassimo con gioia ed usassimo il nostro tempo con allegria e vivessimo pienamente la vita difficilmente ci metteremo a pensare alla morte.Paradossalmente, la paura di morire subentra quando abbiamo paura di vivere.E’ dunque la vita e il suo richiamo a lei che ci spaventa in quei momenti.Spesso infatti la morte sopraggiunge quando non siamo soddisfatti della vita che stiamo vivendo e ci sentiamo frustrati e impotenti. Oppure quando abbiamo paura che la vita non sia così bella e felice come desideravamo o spreravamo.La morte ci ricorda che il tempo scorre e che non stiamo vivendo la vita che vorremmo.Abbiamo quindi paura di morire quando temiamo di non essere in grado di cambiare qualcosa nella nostra vita, quando ci sentiamo impotenti e incapaci di determinare la nostra felicità.Più fuggiamo dalla morte e meno impareremo a comprendere che essa non solo fa parte della vita, ma è anche fondamentale per ricordarci qualcosa di importantissimo: non vivremo in eterno.Non solo la morte ha la capacità di ricordarci che abbiamo un tempo limitato da impiegare nel modo migliore ma soprattutto che, se non siamo capaci di morire, ossia di lasciare andare, allora non cominceremo mai a vivere.Lasciare andare significa lasciare andare le illusioni che ci hanno accompagnato tutta la vita, lasciar cadere le pretese che altri si comportino come vorremmo noi, che gli eventi soddisfassero le nostre aspettative, che la nostra vita vada esattamente come abbiamo pianificato, che possiamo controllare tutto.Ciò che importa nella vita non è tanto la meta che raggiungiamo ma goderci il viaggio.Spesso però capita di sentire che non potremo sentirci rilassati e felici fino a quando magari non avremo un compagno/a, non faremo il lavoro dei nostri sogni, non saremo economicamente stabili, non andremo in pensione, e così via.Ed è proprio quando siamo ossessionati dai nostri obiettivi che ci dimentichiamo di vivere.Quando invece siamo “occupati” a vivere, non sentiamo più la paura di morire, non ci pensiamo, non ci interessa, perché viviamo e basta. ♥️Abbiamo nostra disposizione un tempo limitato e dovremmo viverlo pienamente.   

Amare non è abbandonarsi all’altro

“Chi ama riesce a vincere il mondo, non ha paura di perdere nulla. Il vero amore è un atto di totale abbandono.“ – “Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto”

                                                                                                          Paulo Coelho

➡ La gran parte delle persone che incontro nel mio studio hanno la convinzione che l’amore sia principalmente una questione fra sé e l’altro, e che dipenda da chi abbiamo di fronte o dall’esperienza che stiamo vivendo, piuttosto che considerare che la capacità di amare e la qualità del nostro amore dipenda essenzialmente da noi stessi. 
Quindi spesso usano espressioni come: ”grazie a lui/lei ho trovato l’amore.” oppure ”per colpa sua non credo più nell’amore”. O ancora: “quando troverò la persona giusta mi innamorerò…”
In realtà l’amore, o meglio la nostra capacità di amare, non dipende dall’oggetto del nostro amore, ma da quanto noi siamo in grado di aprirci all’esperienza stessa dell’amore e di arrenderci ai nostri bisogni più profondi, rinunciando in primis al controllo su di noi, e quindi sull’altro e su ciò che accade nella relazione.

➡ ???? Amare l’altro significa in primis amare se’ stessi. La possibilità di amare qualcun altro senza avere un profondo amore per noi è solo un’illusione.
Sento molti miei pazienti dire di essersi completamente prodigati verso il proprio partner perché innamorati, salvo poi essere rimasti delusi perché non ricambiati o allontanati o semplicemente essersi stancati di dare tanto.

➡ La mancanza di amore per sé stessi cambia di molto la qualità dei rapporti con le altre persone. Ci rende insicuri e quindi sempre in cerca di segnali che ci rassicurino che il nostro partner ci considera e poiché siamo noi a non avere una profonda considerazione in noi stessi qualsiasi prova del suo interesse non sarà mai comunque esaustiva. 
Chi ama senza amare sé stesso spesso si rende indispensabile per l’altro prendendosene cura, o anticipando i bisogni del partner o responsabilizzandosi completamente verso una relazione che sta in piedi solo perché lui la tiene in piedi. 
Chi ama senza amare sé stesso non riconosce l’amore che l’altro gli offre, né accoglie dentro di sé i riconoscimenti o gli apprezzamenti che un partner “sano” gli farebbe, perché non li riconosce come veri. Preferisce, paradossalmente, sentirsi rifiutato allontanato credendo nell’amore faticoso, che deve essere mendicato, perché quello è un luogo a lui più familiare e che conferma la disistima che ha per sé stesso. 

➡ Ma innamorarsi veramente è altra cosa…
Innamorarsi è lasciare andare le nostre difese e cedere ai nostri bisogni più profondi di tenerezza, di protezione, di riconoscimento, senza la paura per questo di essere feriti, o meglio accettando anche questa possibilità, con la fiducia che quel dolore che avevamo provato da piccoli per essere stati rifiutati e allontanati o non ascoltati, non ci travolgerà come là e allora, perché oggi siamo persone adulte, in grado di occuparci di noi e di quel piccolo bambino ferito che è dentro di noi.

➡ Nessuno al mondo potrà assicurarci che l’altro ci sarà per noi, che ci amerà come noi desideriamo, che non ci rifiuterà, ma questo non è così pericoloso se noi amiamo noi stessi.
Ecco quindi che abbandonarsi all’amore non è metterci nelle mani di qualcun altro, anzi proprio il contrario, perché significa divenire responsabili di sé stessi della propria felicità e dei propri bisogni, nella piena accettazione di noi stessi, dei nostri limiti, della nostra fragilità e umanità.

❤️ Se avremo cura di noi troveremo chi avrà cura di noi.

Terapia a distanza.

Non ho mai appoggiato la terapia a distanza attraverso l’utilizzo di videochiamate, mail, o telefonate, e tutt’oggi credo che un percorso terapeutico sia gravemente penalizzato dall’utilizzo di questi mezzi in sostituzione del classico appuntamento in cui ci si incontra e si interagisce di persona.Tuttavia, sin dall’inizio di questa pandemia non ho avuto dubbi nel rivolgermi a questi strumenti per mantenere un contatto con i miei pazienti e con il mio terapeuta/supervisore.In realtà non mi sono sentita di fronte ad una possibile scelta. Alcuni miei pazienti erano molto spaventati da ciò che stava accadendo, altri increduli, alcuni bloccati lontano da casa o dai propri affetti più intimi. Trovare un modo per stare con loro, per sostenerli durante ciò che stava accadendo mi è sembrato del tutto naturale. Non che io non avessi un tornaconto psicologico nel continuare il mio lavoro, sicuramente non posso dire di aver agito solo nell’interesse dei miei pazienti. Forse anche io non potevo pensare di rinunciare completamente al mio lavoro e al mio ruolo.Mentirei se non riconoscessi che il poter continuare a lavorare, anche se non nelle condizioni a me più congeniali, non mi abbia aiutato, sostenuto, dato un senso durante questi giorni folli.Fin dalle prime sedute però mi sono resa conto che sia io che il mio paziente avremmo dovuto fare i conti con una dissonanza creata dal fatto di stare insieme, ma non davvero insieme.Questa dissonanza incideva più o meno sulle sedute a seconda anche dei vari clienti. Per alcuni era percepita come un’agevolazione, poiché forniva la possibilità di costruire una relazione mediata da una distanza rassicurante che permetteva a questi pazienti di sentirsi più a proprio agio. Per altri questo essere insieme, ma non-insieme evidenziava una mancanza e si traduceva come fatica all’interno della seduta.Per quanto riguarda me, fin da subito la mia percezione a fine giornata dopo alcune video sedute è stata quella di sentirmi affaticata come in genere non mi succedeva mai, nemmeno nelle giornate più intense. Mi sono chiesta da dove nascesse tale fatica. In particolare, sentivo uno sforzo mentale che non ricordavo più da tempo, e che sicuramente non era più mio da quando ho iniziato a praticare la bioenergetica.Una chiave di lettura me l’ha fornita un paziente, che durante una seduta ha detto una cosa a cui non avevo pensato, ovvero che nelle videochiamate le nostre menti partecipano alla presenza della mente dell’altro, ma i nostri corpi non sono coinvolti e ciò che percepiscono, invece è l’assenza dell’altro. Ho realizzato che questa condizione crea sicuramente una dissonanza che alla lunga può essere faticosa perché confonde, è infatti più facile fare i conti una condizione di maggiore definizione (l’altro è presente o l’altro è assente) che con la presenza della sua assenza. Ho subito pensato a mio figlio piccolo di tre anni e come per lui sia faticoso il contatto telefonico o attraverso il video. Mi sono anche ricordata di quando facevo il mio training a Roma e mi collegavo con mia figlia che allora aveva solo 2 anni, di come il vedermi ma il non poter godere del mio contatto le ricordasse maggiormente che non ero li con lei.Riflettendo ulteriormente ho capito che anche altri fattori andavano ad incidere sulla mia percezione di maggior fatica.Durante una seduta normale tutto il mio essere partecipa e gode della presenza dell’altro e il mio paziente, è nella stanza con me con tutto sé stesso. Quando comunichiamo anche i nostri corpi sono coinvolti e anzi molta parte della comunicazione è affidata al linguaggio corporeo.Non che dal video non si possa vedere il corpo dell’altra persona, ma spesso la parte inquadrata è quella del volto (se tutto va bene….e se il paziente ha capito come porsi di fronte alla telecamera Mi è infatti capitato di fare sedute anche solo con mezzi busti senza testa o con inquadrature di mezza faccia o di fronti o menti.)Invitare il paziente al lavoro corporeo mi era spesso difficile, in molte occasioni impossibile, sia perché il paziente non si trovava nel setting adeguato, sia perché spesso non si sentiva libero nella sua espressione, perché magari non poteva alzare la voce o fare rumore per non disturbare il resto della famiglia, o dei conviventi, presenti nelle altre stanze della sua abitazione.Io stessa soffrivo del fatto di non poter interagire dal vivo con il corpo del mio paziente, aumentando o diminuendo la distanza, fornendogli un contatto diretto o un sostegno toccandolo. E’ vero che anche con la voce, modulandone il tono si può fornire un sostegno adeguato….ma non direi che sia la stessa cosa.Un’altra fatica era determinata dal dipendere da un mezzo per interagire con il mio paziente: in alcune sedute la ricezione del video e dell’audio non era buona, c’erano spesso interruzioni e capitava pure di perdere la connessione. La comunicazione diventava così poco fluida e il fluire delle emozioni poteva essere interrotto o alterato.Un’altra differenza che ho percepito molto significativa per me è stato il mio modo di vivere le pause e i silenzi del mio paziente attraverso il video, mi sembravano spazi vuoti e mi sentivo obbligata a riempirli. Non so dire se tale percezione era condizionata unicamente dall’utilizzo della videochiamata ma sicuramente, il mio modo di percepire il silenzio in una seduta dal vivo è differente.Un’altra difficoltà incontrata è stata quella di sentirmi limitata nell’utilizzo degli strumenti che conosco e che solitamente posso mettere in campo durante una seduta. Molti lavori infatti richiedono la presenza fisica ed un setting adeguato per poter essere attivati. Mi sono resa conto che a volte mi sono trattenuta nel proporre ai miei pazienti lavori che sapevo potenzialmente regressivi temendo di non poterli sostenere nel modo adeguato nella distanza.Superato però un primo momento di fatica e di insofferenza verso il dover utilizzare le videochiamate per continuare il percorso con i miei pazienti mi sono accorta anche di alcuni piccoli vantaggi che mi venivano forniti dal video collegamento.Nel focalizzarmi sulla immagine dello schermo, in un quadrato piccolissimo in alto a destra, ho notato che c’ero io riflessa e potevo scrutare esattamente tutte le mie espressioni facciali e il mio modo di gesticolare. Non mi era mai capitato di potermi vedere interagire con il paziente da fuori, e la cosa mi ha incuriosita. All’inizio mi sembrava difficile poter condurre la seduta, e osservarmi contemporaneamente, ma era comunque interessante poter osservare le mie reazioni espressive rispetto ai racconti dei pazienti. Ho realizzato poi che anche il mio paziente vedeva sé stesso riflesso, e avrei così potuto anche aiutarlo ad autoosservare il suo non verbale. Ad esempio, come aggrottava la fronte, come se si stesse sforzando per ascoltare i miei rimandi, o come stortava la bocca quando dentro di sé respingeva una mia osservazione anche se col capo stava annuendo. Anche il mio paziente si vedeva riflesso e poteva cogliere e rendersi consapevole delle sue espressioni automatiche.Guardarsi mentre il volto esprime, in modo non verbale, una certa emozione attiva i neuroni specchio. Tale processo favorisce un maggior riconoscimento dell’esperienza emotiva senza effettuare un lavoro autoriflessivo, perché, proprio per le caratteristiche intrinseche del sistema mirror, si attiva un riconoscimento preriflessivo, immediato ed automatico. Di conseguenza, però, riflettere consapevolmente su questi processi favorisce una maggiore conoscenza autoriflessiva in termini cognitivi ed emotivi.Certo c’è un punto che resta un po’ in ombra: e il resto del corpo? Questo aspetto forse come dicevo anche precedentemente effettivamente si perde un po’.Non possiamo certo ignorare che riflettere sul nostro lavoro di psicoterapeuti e sul percorso dei nostri pazienti in questo periodo non può limitarsi ad una riflessione sull’utilizzo delle videochiamate al posto delle sedute in presenza. La particolarità del periodo attraversato ha sicuramente influito e impattato sulla storia di ogni persona. Ognuno ha reagito nel suo particolare modo: alcuni pazienti più resilienti, hanno messo in campo nuove risorse o hanno fatto maggior affidamento su sé stessi, c’è però anche chi si è chiuso, alcuni sono andati nella paura e nel panico, altri ancora si sono ritirati usando l’isolamento non come momento costruttivo, ma come area di fuga dalle difficoltà che sentivano di dover affrontare quotidianamente molti, privati della dimensione del fare, si sono appiattiti e avvizziti come delle piantine.Questo tempo, infatti, ci ha imposto restrizioni che bruscamente hanno ridotto la nostra dimensione del fare.Per alcuni dei miei pazienti questo brusco rallentamento è stata l’occasione per ritrovare dei ritmi più umani, e per portare la terapia sempre più vicina a delle riflessioni sull’essere. Per intenderci molti sono passati da domande come, cosa faccio, come mi devo comportare, a chiedersi, cosa voglio, cosa mi fa bene, quali sono i miei bisogni? Ma per altri miei pazienti questo brusco passaggio è stato destabilizzante. Per apportare un profondo cambiamento nella nostra vita trovo fondamentale cambiare prima di tutto punto di vista da quale osservare non solo il mondo e le situazioni, ma noi stessi.Passare cioè dal “ciò che succede fuori mi influenza” al “ciò che succede dentro di me influenza l’ambiente in cui vivo”.Uno dei più grandi geni della storia, Albert Einstein, disse che i problemi che abbiamo non possono essere risolti mantenendo lo stesso livello di pensiero che li ha generati.Questo passaggio però non è così scontato e ho notato che tolta la dimensione del fare, per alcuni dei miei pazienti era difficile portare degli argomenti in terapia, come a dire: “questa settimana non è successo nulla di nuovo, non ho fatto nulla, quindi non so di cosa parlare.”Con questi pazienti in particolare ho faticato maggiormente, perché la mia tendenza è quella di prendermi la responsabilità del percorso sulle mie spalle e di attivarmi quando l’altro non si attiva.Ho dovuto quindi stare più attenta a non entrare nella mia spinta dello “sforzati”.Molte sarebbero ancora le riflessioni sui risvolti psicologici che questo periodo ha avuto sui miei pazienti e anche su me stessa. Aver potuto offrire ai miei pazienti la possibilità di continuare il loro percorso, anche se non in presenza ma da remoto è stato sicuramente sotto tutti gli aspetti positivo, sia per loro che per me. Tuttavia sono felice di tornare alla ricchezza della seduta in presenza, poiché la mia convinzione rimane che una relazione costruita a distanza non può essere paragonata alla relazione vissuta in presenza dell’altro. Penso che all’interno di un percorso di psicoterapia l’utilizzo di video sedute possa essere una risorsa da utilizzare nell’emergenza o in casi particolari, per un tempo limitato. Una terapia interamente on line forse è possibile ma non è a mio parere paragonabile ad un classico percorso e inoltre personalmente non la sento nelle mie corde. Proprio per questo motivo già a partire dal 18 maggio ho ripreso, per chi lo desiderava, le sedute individuali in presenza ( ovviamente prendendo tutte le precauzioni e seguendo le indicazioni sanitarie). Devo dire che ad oggi l’80% dei miei pazienti ha preferito tornare per i colloqui in studio. Rimangono on -line i gruppi di psicoterapia e alcuni pazienti ancora non rientrati a Milano. Una piccola percentuale è ancora “spaventata” dall’uscire di casa e quindi di venire in studio, si tratta però di casi gravi e di pazienti già inclini al pensiero ossessivo, fobici o ipocondriaci. Infine segnalo che ho rilevato che alcuni pazienti trovano “ più comodo” collegarsi on line e ancora mi chiedono di collegarsi a distanza, sono però quei pazienti che già prima della pandemia faticavano a prendersi la piena responsabilità del percorso e poco disposti alla fatica che una relazione reale a 360° gradi comporta.