Terapia a distanza.

Non ho mai appoggiato la terapia a distanza attraverso l’utilizzo di videochiamate, mail, o telefonate, e tutt’oggi credo che un percorso terapeutico sia gravemente penalizzato dall’utilizzo di questi mezzi in sostituzione del classico appuntamento in cui ci si incontra e si interagisce di persona.Tuttavia, sin dall’inizio di questa pandemia non ho avuto dubbi nel rivolgermi a questi strumenti per mantenere un contatto con i miei pazienti e con il mio terapeuta/supervisore.In realtà non mi sono sentita di fronte ad una possibile scelta. Alcuni miei pazienti erano molto spaventati da ciò che stava accadendo, altri increduli, alcuni bloccati lontano da casa o dai propri affetti più intimi. Trovare un modo per stare con loro, per sostenerli durante ciò che stava accadendo mi è sembrato del tutto naturale. Non che io non avessi un tornaconto psicologico nel continuare il mio lavoro, sicuramente non posso dire di aver agito solo nell’interesse dei miei pazienti. Forse anche io non potevo pensare di rinunciare completamente al mio lavoro e al mio ruolo.Mentirei se non riconoscessi che il poter continuare a lavorare, anche se non nelle condizioni a me più congeniali, non mi abbia aiutato, sostenuto, dato un senso durante questi giorni folli.Fin dalle prime sedute però mi sono resa conto che sia io che il mio paziente avremmo dovuto fare i conti con una dissonanza creata dal fatto di stare insieme, ma non davvero insieme.Questa dissonanza incideva più o meno sulle sedute a seconda anche dei vari clienti. Per alcuni era percepita come un’agevolazione, poiché forniva la possibilità di costruire una relazione mediata da una distanza rassicurante che permetteva a questi pazienti di sentirsi più a proprio agio. Per altri questo essere insieme, ma non-insieme evidenziava una mancanza e si traduceva come fatica all’interno della seduta.Per quanto riguarda me, fin da subito la mia percezione a fine giornata dopo alcune video sedute è stata quella di sentirmi affaticata come in genere non mi succedeva mai, nemmeno nelle giornate più intense. Mi sono chiesta da dove nascesse tale fatica. In particolare, sentivo uno sforzo mentale che non ricordavo più da tempo, e che sicuramente non era più mio da quando ho iniziato a praticare la bioenergetica.Una chiave di lettura me l’ha fornita un paziente, che durante una seduta ha detto una cosa a cui non avevo pensato, ovvero che nelle videochiamate le nostre menti partecipano alla presenza della mente dell’altro, ma i nostri corpi non sono coinvolti e ciò che percepiscono, invece è l’assenza dell’altro. Ho realizzato che questa condizione crea sicuramente una dissonanza che alla lunga può essere faticosa perché confonde, è infatti più facile fare i conti una condizione di maggiore definizione (l’altro è presente o l’altro è assente) che con la presenza della sua assenza. Ho subito pensato a mio figlio piccolo di tre anni e come per lui sia faticoso il contatto telefonico o attraverso il video. Mi sono anche ricordata di quando facevo il mio training a Roma e mi collegavo con mia figlia che allora aveva solo 2 anni, di come il vedermi ma il non poter godere del mio contatto le ricordasse maggiormente che non ero li con lei.Riflettendo ulteriormente ho capito che anche altri fattori andavano ad incidere sulla mia percezione di maggior fatica.Durante una seduta normale tutto il mio essere partecipa e gode della presenza dell’altro e il mio paziente, è nella stanza con me con tutto sé stesso. Quando comunichiamo anche i nostri corpi sono coinvolti e anzi molta parte della comunicazione è affidata al linguaggio corporeo.Non che dal video non si possa vedere il corpo dell’altra persona, ma spesso la parte inquadrata è quella del volto (se tutto va bene….e se il paziente ha capito come porsi di fronte alla telecamera Mi è infatti capitato di fare sedute anche solo con mezzi busti senza testa o con inquadrature di mezza faccia o di fronti o menti.)Invitare il paziente al lavoro corporeo mi era spesso difficile, in molte occasioni impossibile, sia perché il paziente non si trovava nel setting adeguato, sia perché spesso non si sentiva libero nella sua espressione, perché magari non poteva alzare la voce o fare rumore per non disturbare il resto della famiglia, o dei conviventi, presenti nelle altre stanze della sua abitazione.Io stessa soffrivo del fatto di non poter interagire dal vivo con il corpo del mio paziente, aumentando o diminuendo la distanza, fornendogli un contatto diretto o un sostegno toccandolo. E’ vero che anche con la voce, modulandone il tono si può fornire un sostegno adeguato….ma non direi che sia la stessa cosa.Un’altra fatica era determinata dal dipendere da un mezzo per interagire con il mio paziente: in alcune sedute la ricezione del video e dell’audio non era buona, c’erano spesso interruzioni e capitava pure di perdere la connessione. La comunicazione diventava così poco fluida e il fluire delle emozioni poteva essere interrotto o alterato.Un’altra differenza che ho percepito molto significativa per me è stato il mio modo di vivere le pause e i silenzi del mio paziente attraverso il video, mi sembravano spazi vuoti e mi sentivo obbligata a riempirli. Non so dire se tale percezione era condizionata unicamente dall’utilizzo della videochiamata ma sicuramente, il mio modo di percepire il silenzio in una seduta dal vivo è differente.Un’altra difficoltà incontrata è stata quella di sentirmi limitata nell’utilizzo degli strumenti che conosco e che solitamente posso mettere in campo durante una seduta. Molti lavori infatti richiedono la presenza fisica ed un setting adeguato per poter essere attivati. Mi sono resa conto che a volte mi sono trattenuta nel proporre ai miei pazienti lavori che sapevo potenzialmente regressivi temendo di non poterli sostenere nel modo adeguato nella distanza.Superato però un primo momento di fatica e di insofferenza verso il dover utilizzare le videochiamate per continuare il percorso con i miei pazienti mi sono accorta anche di alcuni piccoli vantaggi che mi venivano forniti dal video collegamento.Nel focalizzarmi sulla immagine dello schermo, in un quadrato piccolissimo in alto a destra, ho notato che c’ero io riflessa e potevo scrutare esattamente tutte le mie espressioni facciali e il mio modo di gesticolare. Non mi era mai capitato di potermi vedere interagire con il paziente da fuori, e la cosa mi ha incuriosita. All’inizio mi sembrava difficile poter condurre la seduta, e osservarmi contemporaneamente, ma era comunque interessante poter osservare le mie reazioni espressive rispetto ai racconti dei pazienti. Ho realizzato poi che anche il mio paziente vedeva sé stesso riflesso, e avrei così potuto anche aiutarlo ad autoosservare il suo non verbale. Ad esempio, come aggrottava la fronte, come se si stesse sforzando per ascoltare i miei rimandi, o come stortava la bocca quando dentro di sé respingeva una mia osservazione anche se col capo stava annuendo. Anche il mio paziente si vedeva riflesso e poteva cogliere e rendersi consapevole delle sue espressioni automatiche.Guardarsi mentre il volto esprime, in modo non verbale, una certa emozione attiva i neuroni specchio. Tale processo favorisce un maggior riconoscimento dell’esperienza emotiva senza effettuare un lavoro autoriflessivo, perché, proprio per le caratteristiche intrinseche del sistema mirror, si attiva un riconoscimento preriflessivo, immediato ed automatico. Di conseguenza, però, riflettere consapevolmente su questi processi favorisce una maggiore conoscenza autoriflessiva in termini cognitivi ed emotivi.Certo c’è un punto che resta un po’ in ombra: e il resto del corpo? Questo aspetto forse come dicevo anche precedentemente effettivamente si perde un po’.Non possiamo certo ignorare che riflettere sul nostro lavoro di psicoterapeuti e sul percorso dei nostri pazienti in questo periodo non può limitarsi ad una riflessione sull’utilizzo delle videochiamate al posto delle sedute in presenza. La particolarità del periodo attraversato ha sicuramente influito e impattato sulla storia di ogni persona. Ognuno ha reagito nel suo particolare modo: alcuni pazienti più resilienti, hanno messo in campo nuove risorse o hanno fatto maggior affidamento su sé stessi, c’è però anche chi si è chiuso, alcuni sono andati nella paura e nel panico, altri ancora si sono ritirati usando l’isolamento non come momento costruttivo, ma come area di fuga dalle difficoltà che sentivano di dover affrontare quotidianamente molti, privati della dimensione del fare, si sono appiattiti e avvizziti come delle piantine.Questo tempo, infatti, ci ha imposto restrizioni che bruscamente hanno ridotto la nostra dimensione del fare.Per alcuni dei miei pazienti questo brusco rallentamento è stata l’occasione per ritrovare dei ritmi più umani, e per portare la terapia sempre più vicina a delle riflessioni sull’essere. Per intenderci molti sono passati da domande come, cosa faccio, come mi devo comportare, a chiedersi, cosa voglio, cosa mi fa bene, quali sono i miei bisogni? Ma per altri miei pazienti questo brusco passaggio è stato destabilizzante. Per apportare un profondo cambiamento nella nostra vita trovo fondamentale cambiare prima di tutto punto di vista da quale osservare non solo il mondo e le situazioni, ma noi stessi.Passare cioè dal “ciò che succede fuori mi influenza” al “ciò che succede dentro di me influenza l’ambiente in cui vivo”.Uno dei più grandi geni della storia, Albert Einstein, disse che i problemi che abbiamo non possono essere risolti mantenendo lo stesso livello di pensiero che li ha generati.Questo passaggio però non è così scontato e ho notato che tolta la dimensione del fare, per alcuni dei miei pazienti era difficile portare degli argomenti in terapia, come a dire: “questa settimana non è successo nulla di nuovo, non ho fatto nulla, quindi non so di cosa parlare.”Con questi pazienti in particolare ho faticato maggiormente, perché la mia tendenza è quella di prendermi la responsabilità del percorso sulle mie spalle e di attivarmi quando l’altro non si attiva.Ho dovuto quindi stare più attenta a non entrare nella mia spinta dello “sforzati”.Molte sarebbero ancora le riflessioni sui risvolti psicologici che questo periodo ha avuto sui miei pazienti e anche su me stessa. Aver potuto offrire ai miei pazienti la possibilità di continuare il loro percorso, anche se non in presenza ma da remoto è stato sicuramente sotto tutti gli aspetti positivo, sia per loro che per me. Tuttavia sono felice di tornare alla ricchezza della seduta in presenza, poiché la mia convinzione rimane che una relazione costruita a distanza non può essere paragonata alla relazione vissuta in presenza dell’altro. Penso che all’interno di un percorso di psicoterapia l’utilizzo di video sedute possa essere una risorsa da utilizzare nell’emergenza o in casi particolari, per un tempo limitato. Una terapia interamente on line forse è possibile ma non è a mio parere paragonabile ad un classico percorso e inoltre personalmente non la sento nelle mie corde. Proprio per questo motivo già a partire dal 18 maggio ho ripreso, per chi lo desiderava, le sedute individuali in presenza ( ovviamente prendendo tutte le precauzioni e seguendo le indicazioni sanitarie). Devo dire che ad oggi l’80% dei miei pazienti ha preferito tornare per i colloqui in studio. Rimangono on -line i gruppi di psicoterapia e alcuni pazienti ancora non rientrati a Milano. Una piccola percentuale è ancora “spaventata” dall’uscire di casa e quindi di venire in studio, si tratta però di casi gravi e di pazienti già inclini al pensiero ossessivo, fobici o ipocondriaci. Infine segnalo che ho rilevato che alcuni pazienti trovano “ più comodo” collegarsi on line e ancora mi chiedono di collegarsi a distanza, sono però quei pazienti che già prima della pandemia faticavano a prendersi la piena responsabilità del percorso e poco disposti alla fatica che una relazione reale a 360° gradi comporta.

Il non potere della terapia

In questi anni mi è capitato spesso di leggere articoli, sentire dibattiti, ascoltare pazienti o amici, che descrivevano il potere che la terapia ha avuto nella loro vita.A chi volesse avvicinarsi a questa esperienza risulterebbe facile documentarsi su ciò che può fare la terapia, quale può essere la sua utilità. Devo dire però che, spesso, il significato del percorso di psicoterapia viene travisato, e vengono riposte in questa esperienza aspettative che non hanno nulla a che vedere con ciò che poi accade in realtà. Così, poiché troppo spesso mi sono ritrovata a confrontarmi con alcune affermazioni di miei pazienti come: “Sono due anni che sono in terapia e ancora questa cosa non è cambiata.” – “Sono venuto in terapia per stare bene, sono stanco di stare male.” – “Pensavo di essere più avanti nel mio percorso ed ecco che torna questa difficoltà.” – “Sono anni che faccio terapia e ancora non ho una relazione, un lavoro.” – “Sono venuto qua perché tu mi dicessi cosa è meglio per me.” e molte altre frasi simili, ho deciso di scrivere questo articolo su ciò che non può fare la terapia. Mi rendo conto che forse mi tirerò la zappa sui piedi, ma sono stanca che la psicoterapia sia mistificata per poi essere distrutta. Sono stanca di vedere alcuni miei pazienti mandare a monte l’impegno che hanno messo in un percorso di anni, vanificare i propri sforzi o, peggio ancora, usare la terapia come un alibi per dirsi che neanche questo ha funzionato.

Molti pazienti vengono in terapia per cambiare. Cambiare ciò che di sé stessi li spaventa, ciò che non piace loro o li disturba.Pertanto comincerei affermando che la terapia più che portare ad un cambiamento porta all’accettazione. Non c’è nessun cambiamento senza accettazione. La terapia di per sé non ha il potere di cambiare o trasformare la nostra natura, ma piuttosto di aiutarci a comprenderla e liberarla, “farcela amica” per imparare ad esprimerla costruttivamente a favore del benessere della nostra vita. Altri pazienti vengono in terapia per smettere di soffrire.Anche qui direi che, purtroppo, a volte fare un percorso di terapia può voler dire anche attraversare le nostre emozioni più cupe. La terapia non è un modo per evitare il dolore, ma è la sua comprensione e la sua trasformazione.

Ci sono anche pazienti che vengono in terapia perché vogliono smettere di avere paura. Ma per smettere di avere paura bisogna affrontare le proprie paure. La terapia non ci trasforma magicamente. E’ il viaggio che ci aiuta a compiere che crea in noi un’ esperienza riparatrice. Se vogliamo smettere di avere paura la terapia può aiutarci a comprendere e attraversare questo nostro vissuto, può sostenerci mentre affrontiamo le paure stesse, ma non può annullarle.La terapia chiede impegno e costanza. Il vero lavoro si fa una volta fuori dalla stanza. Durante le sedute si acquisisce consapevolezza, si entra in contatto con i nostri vissuti, si impara ad esprimerli, si acquisiscono una serie di strumenti; il nostro impegno sarà quello di impegnarci a portare tutto questo nella nostra quotidianità. Alcuni pazienti iniziano un percorso di terapia per trovare qualcuno (un terapeuta) che gli dica cosa fare, cosa sia giusto o sbagliato, cosa sia meglio per lui. Sfatiamo una volta per tutte il mito che la terapia significhi affidarsi ad un terapeuta che ci dirà cosa dobbiamo fare. In realtà sarà utile usufruire del suo aiuto, dei suoi strumenti, per poter trovare dentro di noi cosa sia giusto a riprenderci la responsabilità della nostra vita, per guidarla e sentirci bene con le scelte che facciamo. Altra falsa convinzione, nella quale a volte cadono i pazienti, è dimenticarsi che la buona riuscita di un percorso non dipende solo dall’aver scelto un “bravo terapeuta”. La terapia si basa sulla costruzione di una relazione che, come tutte le relazioni, richiede coinvolgimento ed impegno da entrambe le parti. Un’alleanza che, per funzionare, richiede ad entrambe le parti di attivarsi, proprio come accade in ogni relazione. Molti pazienti si rivolgono alla terapia per risolvere velocemente una disagio, ma la terapia ha i propri tempi. Nessuna trasformazione importante è veloce, ci abbiamo messo anni ad essere quello che siamo e la terapia non combatte le nostre resistenze, non forza. La terapia accompagna la persona perché trovi un nuovo modo per vivere la propria vita senza forzarla, in modo che possa ritrovare la propria naturalità. Ci sono anche i pazienti che vengono in terapia con la convinzione di non poter fare più nulla per sé stessi e la propria vita. Non credono di poter cambiare la loro esistenza e, in poche parole, non credono veramente nella terapia stessa. Per fare una buona terapia occorre avere fiducia e credere di avere altre possibilità. La terapia non è affidarsi ad un terapeuta perché ci guarisca, la terapia è ritrovare la fiducia in sé stessi, la fede nella vita e la voglia di costruire attivamente il proprio futuro.

Mamma.

Mamma ti vedo, ti vedo quando piangevi, ti vedo anche quando cercavi di non piangere e buttavi indietro le tue lacrime, in un posto profondo, profondo, che neanche tu ricordi e poi lì ti facevano male, scavavano e bruciavano.
Forse era per questo che non sopportavi le mie di lacrime.

Mamma ti vedo, ti sentivi sola e sperduta, non potevi fidarti del tuo cuore, dovevi essere forte e fare la cosa giusta.
Forse era per questo che eri sempre così dura, così severa.

Mamma ti vedo, vedo la tua enorme paura era come un buco nero, un vuoto che ti risucchiava, ti divorava e tu combattevi e lottavi contro i tuoi mostri.
A volte ci finivamo dentro tutte e due insieme… Io tenevo la tua mano, anche se avevo paura di quei mostri.

Mamma ti vedo dopo che hai perso tua figlia… ti allontani, vai in esilio… mamma non ti vedo più.

Mamma mi ricordo… mi ricordo che mi volevi bene mi ricordo che ti volevo bene, piccoli attimi caldi mentre naufragavamo in un mare gelido.

Mamma mi ricordo, mi ricordo i tuoi capelli rossi, fili preziosi a cui mi aggrappavo per non affogare, le tue mani magre ma forti che mi sollevavano.

Mi ricordo il tuo sorriso che improvvisamente illuminava tutto il mio cielo.

Mamma mi ricordo quando gridavi, grida ancora perché ho perso la strada e devo tornare a casa, chiama il mio nome…

Mamma mi ricordo, tu sei mia mamma io sono tua figlia.

Siate liberi e pensate con le vostre teste.

 

Tempo di Coronavirus.

Facile? Scontato? Banale? Per nulla. Essere liberi non significa poter fare tante cose. O scegliere di non farle. Sappiamo tutti che il concetto di libertà è tutt’altro che assoluto: è influenzato soggettivamente dai modelli educativi ricevuti, dalla cultura di appartenenza, dal livello di autostima che si possiede; è condizionato oggettivamente dal contesto sociale e familiare, dalla contingenza delle circostanze.

Questo tempo, in cui la nostra libertà sembra essere giustamente limitata, mi porta a riflettere su cosa significhi esattamente essere liberi. Non ho delle risposte ma solo riflessioni e domande.

Prima domanda: Cosa succede quando il nostro diritto alla libertà viene messo in discussione in nome della tutela della nostra vita.

Non c’è risposta a questa domanda o almeno io non l’ho trovata. L’uomo non baratta la propria libertà con la propria vita, perché sa bene che se non c’è vita non c’è libertà.

Molte delle grandi dittature sono salite al potere in nome della salvaguardia della vita.
E’ questo che mi spaventa.
Stiamo sperimentando sulla nostra pelle che nel nome della salute è possibile revocare la libertà, sospendere i diritti elementari e la democrazia, imporre senza se e senza ma norme restrittive, fino al coprifuoco.
Non sto mettendo in discussione la profilassi e la prevenzione adottate, magari posso dissentire sui singoli provvedimenti o sulla loro arbitraria e casuale applicazione, su tempi e sui modi ma è ovvio che l’unico modo per rallentare un’epidemia è limitare le possibilità di contagio.
Ciò che mi spaventa è la modalità con cui questi limiti vengono suggeriti/ imposti.
Attraverso la diffusione della paura.
Il tema di fondo è antico quanto l’uomo e la politica. Il potere regge sulla paura, lo diceva Hobbes e in modi diversi Machiavelli. E lo dicevano gli antichi prima di loro. E la paura è sempre, alla fine, paura di morire.
Pensate, è come se io educassi i miei figli facendogli credere che se non seguono le mie direttive moriranno.
La minaccia della morte ci priva automaticamente della libertà.

E quindi?
Quindi non so, ma mi chiedo: ”Fino a che punto sono disposta a modificare la mia vita e a cambiarne la qualità, pur di ascoltare la promessa di vivere più a lungo ed evitare la possibilità di ammalarmi o di mettermi in pericolo?”.

Seconda domanda: Chi è il nemico che stiamo combattendo?

In un articolo uscito su Internazionale pochi giorni fa, Daniele Cassandro segnala che “l’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra”.
Citando Susan Sontang, “trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate”.

Come psicoterapeuta mi permetto di dire che, la metafora del paese in guerra è rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo, perché di nuovo ci pone in uno stato di timore e paura.
Differenzia le vittime dagli eroi, i buoni dai cattivi. Ci inscrive automaticamente in un copione dove ognuno ha un ruolo e un destino.
Gli eroi vengono celebrati celebrati, ma morti.
Le vittime rischiano la vita e in genere muoiono.
I buoni sanno cosa è buono.
I cattivi vanno combattuti.
Parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne. Ci mette gli uni contro gli altri. E’ perché aderiamo a questo copione che vediamo i nostri vicini come possibili portatori del virus o accusiamo e denunciamo chi secondo noi non segue le regole.
Chi sono i veri nemici di questa guerra?
Qual è il mio ruolo in questa guerra?

Non è una guerra, ma è pericoloso pensare che lo sia perché, in questa cornice, risultano legittimate molte azioni contro cui in genere ci opporremmo.
Solo in uno scenario di guerra possiamo accettare che qualcuno possa decidere chi deve vivere e chi deve morire.
Solo in uno scenario di guerra possiamo pensare che una vita meriti di essere salvata più di un’altra.
Solo se pensiamo di essere in guerra possiamo accettare di morire lontano dai nostri cari.

Io non sono in guerra e se c’è una guerra io posso decidere di non combatterla.

Terza domanda: Chi decide cosa è meglio per noi al tempo del Coronavirus?

Sono sempre stata solita rimandare ai miei pazienti che loro e solo loro sono in grado di sapere e decidere il meglio per sé stessi. Basta imparare ad ascoltarsi. Prendere in mano la propria vita significa essere responsabili di sé stessi, ma anche più potenti e più capaci di dare la forma che vogliamo al nostro futuro.

Ma possiamo veramente scegliere per noi stessi, se abbiamo abdicato a questo nostro potere perché siamo in preda alla paura e all’insicurezza? Credo che, ogni decisione che prendiamo nell’oggi, debba vivere dentro a possibili scenari futuri, dal migliore al peggiore nel rispetto di sé stessi e degli altri.
Di questi tempi però, pare funzioni meglio chi decide e costruisce le proprie azioni come se le cose andassero nel peggiore dei modi de attua le condizioni per sopravvivere in quella situazione. La ragione è abbastanza semplice: è molto più facile, di fronte al realizzarsi di condizioni migliori di quelle attese, cambiare le azioni e fare meno sacrifici. Chi invece prefigura ai propri interlocutori uno scenario migliore e prende decisioni conseguenti, di fronte al verificarsi di quello peggiore perderà credibilità.

Per scampare al peggio tutti siamo pronti a fare di tutto.
Uscireste di casa se vi dicessero che sicuramente sarete aggrediti, picchiati e derubati?

Come vi dicevo non ho risposte a queste domande, ma se volete posso condividere con voi le linee guida che mi fanno navigare in mezzo a tutte queste riflessioni, che sono queste:
– Accetta ma non rassegnarti.
– Sii gentile con te stessa e gli altri.
– Ammetti le tue emozioni.
– Informati e pensa con la tua testa.
– Abbi fede.
– Non rinunciare alla tua e alla altrui libertà.

 

 

La paura è più virale del Coronavirus.

“Le persone si dividono in tre categorie: quelli che vedono, quelli che vedono solo se gli si indica, quelli che non vedono nemmeno se gli si indica.” (Leonardo Da Vinci)

In questi giorni mi sono spesso interrogata su come la nostra mente influenzi le nostre azioni, e su come le nostre menti possono essere a loro volta influenzate e influenzabili.
Ho riflettuto su come la paura ci renda meno liberi e meno lucidi. Ho osservato come la paura si possa diffondere velocemente, insinuando dubbi, confondendo ed arrivando persino a toglierci la capacità di formulare semplici pensieri logici. La paura ci fa compiere azioni assurde come svaligiare supermercati, barricarci in casa e cospargerci di alcool.

Ho osservato come, la paura di morire, ci faccia smettere di vivere. Ho osservato come, nella nostra società, il potere mediatico sia persino più importante di quelli legislativo esecutivo e giudiziario, e di come tale potere venga utilizzato per diffondere paura, anziché informazione.

Questa settimana ho osservato a lungo ed ora voglio dirvi quale sia la mia riflessione. Non scrivo perché la mia riflessione possa essere la vostra verità, scrivo per invitare tutti voi ad avere una vostra riflessione su ciò che sta accadendo.

Viviamo in luoghi malati e ci ammaliamo (e non sto parlando dell’aria di Milano), ma di società nella quali la paura diviene il mezzo per esercitare un potere, una manipolazione, un controllo.
Una società che sfrutta il fatto che, per l’essere umano, spesso, la sicurezza sia più importante della propria libertà. Così accettiamo di buon grado una limitazione della libertà di fronte ad un’emergenza per la nostra vita. Più la massa è impaurita, più saranno gestibili le sue reazioni istintive e più saranno applicabili azioni restrittive in nome della sicurezza generale.
E diremo anche “grazie”.

VIVIAMO IN SOCIETÀ CHE SCELGONO DI NON ABBASSARE IL LIVELLO DI PAURA.

Viviamo in società che scelgono di non abbassare il livello di paura, promuovendo un massiccio bombardamento di notizie, che diffondono un senso comune di insicurezza. Anche quando riconosciamo di vivere in un paese in cui c’è una certa diffusione del benessere, dobbiamo sempre temere per qualcosa e dobbiamo sempre percepire costantemente una situazione di minaccia: precarietà finanziaria, virus, criminalità, aggressioni, stupri fino al terrorismo e alla guerra.
Viviamo in un paese che divide le masse utilizzando la paura, mettendo gli uni contro gli altri: ammalati/ sani – vecchi/giovani – comunitari/ extracomunitari – donne/uomini…

La psicologia insegna che, nella dinamica manipolatore e manipolato, persecutore e vittima, chi è nella posizione down non è comunque passivo, non è privo di responsabilità.
Pertanto, se non vogliamo avere dei carnefici non facciamoci vittime, se non vogliamo essere manipolati non rendiamoci manipolabili.
Smettiamo di attribuire sempre a qualcun altro i nostri malesseri, smettiamo di avere paura, delle aggressioni, degli extracomunitari, della disoccupazione, della povertà, delle malattie e persino della morte: perché tutto questo è la vita.

SMETTIAMO DI AVER PAURA DELLA VITA.

 

Io Canto.

“Io canto” è ciò che ripete Laura nella bellissima poesia che ha scritto alla fine del suo percorso. Laura è una donna che ho avuto il piacere di accompagnare come terapeuta per un pezzo del suo percorso nella vita.
In genere chiedo ai miei pazienti, quando sentono di aver finito il loro percorso di psicoterapia, di portare qualcosa che rappresenti la strada fatta insieme. Chiedo loro di essere creativi, ognuno come può, ognuno come sente nelle proprie corde, di provare a condensare in un’immagine, un oggetto una produzione propria, quella che è stata la loro esperienza del percorso di psicoterapia.
Voglio condividere con voi questa bellissima poesia di Laura, da lei scritta e regalata a me e anche a voi e a tutti coloro che vorranno leggerla.
Grazie Laura per la strada fatta insieme.

Ciò che sono io canto
Ciò che accade

La pianta di Datura che altissima svetta.
Piena di fiori violetti,
portata dal vento nell’angolo del vaso.
Ci voleva la terra,
e c’era, per il seme.

Le cose che non vanno come vuoi tu
Io canto
vanno come vanno
Teresa non prende la sufficienza in latino,
Gian non mi fa il regalo che vorrei
E le sue mani, io canto.

Il cielo rosa di fine estate
La mia bici che pedala veloce padrona delle strade
Le risate intorno a un tavolo
La luna e tutte le sue facce tutte belle.

Il senso del giusto
Io canto
Quando, perduta, tutto era scomparso
Essere quella che sono.

Acqua di sicuro sono
Acqua che scorre e acqua ferma

Sono bosco attraversato dall’odore dell’alba
e foglia che ride leggera e presto si staccherà

Sono quel vecchio all’angolo della strada stanco e curvo
e la bimba saccente che lo guarda

La voce che urla da quella finestra e poi si placa
E questo bruco io sono che non sai se diventerà farfalla, appeso alle foglie di Datura.

Sono i tuoi occhi umidi mentre mescoli il caffè
labbra appassionate che aspettano al portone

Sono la prima luce che accende la scogliera e scalda subito.
Sono quella che sono
Io canto
Nè più nè meno di quella che potrei essere

La morte non separa, non cancella.

Molte persone entrano nel mio studio ferite, una di queste ferite può essere un lutto, una perdita, un allontanamento da una relazione importante. Quando Marco è venuto da me, aveva perso da non molto la propria moglie. Devo dire che gran parte del lavoro di rielaborazione del lutto lo aveva già fatto da solo, gli serviva solo qualcuno che lo accompagnasse e lo aiutasse ad autorizzarsi nuovamente a godere pienamente della bellezza della vita, per sé e per i suoi figli. Nel suo percorso ha imparato a mettere insieme dolore e gioia, amore e dispiacere, morte e vita, come opposti, che in realtà si completano e arricchiscono a vicenda.

Marco è uno scrittore e, grazie alla scrittura, dà voce in un modo meraviglioso, intenso e profondo ai suoi pensieri, le sue emozioni e il suo mondo interno. Così, ho chiesto a Marco di poter condividere con voi questo suo post, pubblicato un paio di giorni fa, che mi ha commossa, aprendomi il cuore:

“Ieri sera mi hanno chiesto, con tanto amore, se gli auguri per il nostro anniversario fossero graditi o se portassero tristezza.
Soltanto in quel momento mi sono reso conto che dal giorno del mio matrimonio sono passati vent’anni.
Una vita, più vita di quanto ne abbiano vissuta i miei figli.
Ho risposto che si, sono graditi, perchè ciò che di bello ci viene donato va celebrato, al di là del dolore, e nulla è più bello di una persona che si dona ad un’altra. Nulla è più bello di chi completa il dono di sé donando la vita ad altri, lasciando traccia del suo amore nell’abbraccio che i nostri figli mi danno. Una meravigliosa carezza a otto mani: le nostre e le sue.
Voglio condividere con voi tutti due particolari del mio ricordo, due aspetti di una vita vissuta per intero anche se finita troppo presto.
Il primo è il sorriso.
È per questo che non sono triste, anche se di motivi per esserlo potrei trovarne, anche se ricordare mi porta sempre a quell’ultimo momento che di allegro proprio non ha nulla. Quel sorriso mi ha accompagnato per anni, nascondendosi così raramente. Forse la più grande intimità che abbiamo avuto sono stati i momenti, brevi, in cui il suo sorriso si è spento a causa di troppe prove troppo amare. Sorrido perché in me e nei miei figli continua a sorridere lei. Non farlo sarebbe un tradimento.
Il secondo è la fame di futuro, la gioia di vivere.
Una incrollabile gioia di vivere che come lascito ci ha chiesto di onorare la vita che abbiamo, di continuare a costruire, con fiducia, insieme. Un dolcissimo ordine, l’invito un po’ imperativo ad amare, ad amarsi, a riempire la vita che ci è data d’affetto e di dolcezza. L’amore, la gioia, la vitalità del cuore, sono un bene contagioso che non è facile lasciare in eredità. E che non è nemmeno così facile ricevere in eredità perché ci spinge oltre, ci invita a ricominciare senza dimenticare, a superare un senso di colpa che non ha ragione d’essere.
Così oggi, ricordando le promesse che ci siamo scambiati e onorando il suo lascito, festeggio con voi e vi ringrazio perchè mi aiutate ad obbedire a quell’ordine gentile. Spero di dare altrettanta gioia, forza, sorriso e speranza a tutte le persone che a vario titolo stanno accettando il mio amore, che lo alimentano e lo ricambiano incarnando per me la gioia di vivere.
Sorrido alla vita, dunque, e a tutto l’amore che porta con sè.
Sorridete anche voi, le farà sicuramente piacere.”

Ritratto Terapia

scrivania

★ PROVATO IN PRIMA PERSONA E CONSIGLIATO DALLA PSICOTERAPEUTA STEFANIA COLOMBO ★ https://www.micaelazuliani.com/ritrattoterapia

Io e la dottoressa Stefania Colombo, psicoterapeuta ad indirizzo analitico transazionale e bioenergetico, dello spaziopsicoterapia a Milano, abbiamo deciso di creare dei progetti insieme in cui la fotografia e la psicologia lavorano per un fine comune: la terapia e il benessere delle persone.
Per poter comprendere meglio come lavoro, ha provato di persona il Ritratto Terapia, sotto una sua recensione.
“Oggi ho incontrato per la prima volta Micaela Zuliani, sebbene sapessi già come lavora da diverso tempo non avevo mai avuto il piacere di fare una chiacchierata con lei. Sono andata a casa sua pensando di rimanerci un paio d’ore e alla fine ci sono rimasta quasi per tutto il pomeriggio. Ci siamo raccontate di noi e dei nostri progetti professionali, di che cosa significa per noi fare terapia. Sembravamo due bambine emozionate nel ritrovare nell’altro gli stessi punti di vista, le stesse idee, la stesse riflessioni sulla terapia, l’arte e il potere della comunicazione. Fino a qua tutto bene, poi ho voluto sperimentare,come sempre faccio, su di me il suo approccio prima di poterlo proporre ai miei pazienti. Così mi sono fatta fotografare.
Per me e il mio narcisismo non è stato semplice, perché sapevo che Micaela non è alla ricerca delle foto belle, ma è alla ricerca delle foto vere. 
Wow… li ho potuto avvertire veramente la potenza del suo approccio e di come attraverso il suo occhio intuitivo, attento e sensibile Micaela ti accompagni e faccia luce su quegli angoli più nascosti che sono dentro di te.Ti tira fuori, ti mette a nudo, (anche se stai posando vestita), E poi ti guarda con il suo sorriso bellissimo e ti dice: ”guarda che sei tu, ti piaci?”
Ed è difficile, perché NO a volte non ti piaci, ma sei così e sei vera, E ti riconosci vera.
Ho visto di me cose che conosco e che ancora dopo tanti anni di terapia faccio fatica ad accettare, come la mia difficoltà a lasciarmi andare completamente, ho incontrato la mia sensualità di cui ancora mi vergogno e mi spaventa, e la mia fragilità. Ed ho di nuovo avuto la conferma di come il nostro corpo comunichi più di ogni altra cosa e di come parli di noi stessi, andando oltre i nostri costrutti mentali, oltre quello che noi ci raccontiamo di noi.
Micaela, attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica ti vede (veramente) e quindi tu ti vedi.
E mi è venuto in mente di come il bambino si riconosce e costruisce la propria identità attraverso il rispecchiamento con la madre e attraverso l’immagine che la madre gli rimanda di lui.
E di come l’essere umano sia come un’opera d’arte bellissima e come un’opera d’arte prende significato quando c’è qualcuno che la guarda.
Micaela mi ha chiesto di scrivere un commento a caldo e questo è quello che mi è venuto, ma io credo che il lavoro fatto oggi mi lavorerà dentro ancora per un po’…”

Stefania_Colombo-1

Dimmi, mamma.

Dedicato a mia mamma che mi ha dato i superpoteri.

L’altro giorno mia figlia Sofia si è seduta accanto a me sul divano e, come fosse una domanda del tutto naturale, mi ha guardata e mi ha chiesto:
“Dimmi, mamma: perché hai voluto diventare mamma?“
IO, tergiversando: “Che cosa vuoi dire?”
LEI: “Ma mamma, non capisci? Perché hai voluto fare la mamma?”
IO: “Capisco benissimo, ma mi fai una domanda alla quale non ho mai veramente pensato…
Dunque, la prima volta, intendo dire la prima volta che sono diventata mamma, cioè quando ho avuto te,
credo di aver voluto diventare una mamma perché mi sembrava bellissima l’idea di potermi occupare di una piccola creatura di cui sarei stata responsabile. E anche se la cosa un po’ mi spaventava, ero sicura che mi avrebbe fatto crescere enormemente.”
LEI: “In che senso, mamma? Non eri già grande quando hai avuto me?”
IO: “Grande di età sì, ma quello che intendo dire è che avere avuto te è un’esperienza bellissima, e come tutte le esperienze nuove che facciamo, mi ha fatto crescere in tante cose.”
LEI: “Quali cose?”
IO: “Beh, quando sono diventata mamma, tanto per cominciare, ho capito che puoi volere talmente bene a qualcuno che ti sembra che ti scoppi il cuore. E tutto quel bene è come un super potere che ho dovuto imparare a usare perché ti arrivasse nel modo giusto.”
LEI: “Come i supereroi devono imparare a usare il loro superpotere altrimenti fanno casini?”
IO: “Esatto! È proprio come per i supereroi: un giorno ti svegli e hai un nuovo superpotere, quello delle mamme. Ma, come un supereroe, non sai bene cosa fartene, e nemmeno sai se lo vuoi tutto, quel potere, perché vuol dire anche tante responsabilità.”
LEI: “Forte! Pero tu l’hai voluto, vero mamma?”
IO: “Certo, ma ho dovuto imparare a usarlo. Anche adesso non sono bravissima, a volte lo uso troppo.”
LEI, interrompendomi: “Sì sì, come quando mi sgridi per niente e vuoi che faccia come dici tu.”
IO: “Più o meno… A volte mi dimentico di averlo.”
LEI: “Ma allora le mamme sono invincibili come i supereroi?”
IO: “No, solo l’amore per i loro figli è invincibile, ma loro non lo sono per niente. Anzi, le mamme hanno tante paure.”
LEI: “Di che cosa hai paura mamma?”
IO: “Di tantissime cose.”
LEI: “Io lo so di cosa hai paura: hai paura di perdermi.”
IO: “Esatto! Come fai a saperlo?”
LEI: “Perché, per esempio, quella volta da piccola che sono uscita dal negozio e non mi trovavi più e poi sono tornata con un fiore per te, tu mi hai abbracciata forte forte e mi hai detto che avevi avuto tanta paura, e io la paura la vedevo nei tuoi occhi.”
IO: “Noi mamme abbiamo sempre paura di perdere i nostri figli. Non solo abbiamo paura che vi capiti qualcosa, ma abbiamo paura che a un certo punto, in genere quando non avete più bisogno di noi, smettiate di volerci bene.”
LEI: “Mamma, io ti vorrò per sempre bene, E avrò sempre bisogno di te.”
IO: “No, tesoro, arriverà un momento in cui tu potrai vivere la tua vita anche senza di me.”
LEI: “No, mamma. Ma quando? Perché?”
IO: “Quando mi avrai messo nel tuo cuore e avrai assorbito tutto il mio superpotere.”
LEI: “Ma fare la mamma è bello?”
IO: “Bellissimo, amore mio. La cosa più difficile ma più bella ed entusiasmante che abbia mai fatto.”
LEI: “Ma allora perché ci sono donne che non sono mamme?”
IO: “Non tutte le donne hanno la fortuna o il desiderio di avere un figlio. Ma tutte le donne possono essere mamme, in un modo o nell’altro. Io ho avuto la fortuna di avere voi due, ma si può essere mamme in tanti modi.”
LEI: “Come le maestre? Quando ero all’asilo Adele mi coccolava come una mamma.”
IO: “Come le maestre, le pediatre, le zie, la nostra vicina che ti porta sempre le caramelle che ti piacciono, la tua madrina…”
LE: “Anche tu sei un po’ mamma dei tuoi pazienti?”
IO: “Sì, esatto. E poi possiamo essere un po’ mamme anche di noi stesse.”
LEI: “Come?”
IO: “Prendendoci cura di noi, volendoci bene, parlandoci e amandoci come fa la mamma.”
LEI, con aria furbetta: “Anche sgridandoci come fa la mamma?”
IO: “Solo se ci sgridiamo con amore.”
LEI: “Sì, ma a volte tu mi sgridi forte.”
IO: “La mamma ha il superpotere della mamma, che è quello di dare amore e preparare suo figlio per la vita, ma i figli hanno il superpotere dei figli, che è quello di essere persone migliori dei propri genitori per non ripetere i loro errori e perdonarli se hanno sbagliato.”
LEI: “Come quando ti arrabbi e diventi la mamma mostro e poi mi chiedi scusa perché hai esagerato?”
IO: “Esatto!! E se io imparo a perdonare la mamma mostro spero che anche tu potrai perdonarla.”
LEI: “Mamma, io ti ho già perdonata, ti ho sempre perdonata, sei tu che non ti perdoni.”

Stefania e Sofia

Serendipity

Serendipity è un lieve stato di grazia, è la predisposizione ad accettare una fatalità benevola,un’apertura verso ciò che ci viene incontro lasciandoci attraversare e oltrepassare, un’attitudine a guardare in modo creativo la vita e quindi ad apprezzarne la creatività, a cogliere e apprezzare eventi fortuiti.

Entrare in una libreria senza un perché e trovare un libro meraviglioso, svoltare a destra in un viottolo poco invitante per scoprirvi un riquadro di paesaggio incantevole, soffermarsi sul piacere, anche di qualcosa di piccolo, in un momento di sconforto, fare un giro più largo per tornare a casa e incontrare una persona che non incontravamo da tempo… Ecco, tutte queste situazioni sono esempi in cui può manifestarsi Serendipity. Situazioni in cui trovi qualcosa di sorprendente, mentre stai facendo o cercando altro.

Serendipity non è un qualcosa per pochi, non è nemmeno una casualità fortuita: i nostri giorni sono pieni di atti di Serendipity, ma spesso noi siamo chiusi alla sua manifestazione. Pensierosi, indaffarati, preoccupati, agitati, di fretta, troppo innamorati, troppo soli, tristi, annoiati, comunque distratti rispetto a ciò che ci viene incontro.

Forse, potremmo pensare che per vivere la Serendipity dobbiamo essere leggeri, come dire superficiali, in realtà non è così, per essere aperti occorre essere molto profondi, aver toccato gli abissi più scuri e avere la consapevolezza di poterne far ritorno. Lasciarsi andare, aprirsi, accettare, è un grande atto di fiducia verso se stessi in primis e verso la vita. Chi si sente in pericolo, chi deve controllare tutto, chi vive in bilico e deve stare attento ai propri passi per non crollare, per fare la cosa giusta, per arrivare continuamente ad un obiettivo, non può predisporsi verso Serendipity.

Questa attitudine preoccupata e sfiduciata ci rende ciechi verso le varie possibilità che la vita ci offre, ci nega nuovi incontri, ci frena verso la scoperta di luoghi piacevoli e incantevoli, ostacola nuove esperienze e, soprattutto, mette a tacere la nostra creatività.

Non è quindi la vita ad essere monotona e sempre uguale a se stessa, o la nostra realtà ad essere piatta ed insipida, ma siamo noi che in qualche modo o per svariate ragioni siamo chiusi verso la sua sorprendente varietà, frenati verso le varie possibilità e prosciugati della nostra creatività.

Il concetto di Serendipità è quindi davvero affascinante. In parte per la sua assonanza con la parola serenità, ma soprattutto perché trasmette, seppur inespressa, una precisa esortazione. È un monito aguardare le cose senza schemi prestabiliti, tenendo sempre gli occhi ben aperti, a lasciarci più andare, ad essere più flessibili,ad aprire il nostro cuore e la nostra mente a nuove esperienze, nuovi punti di vista nuove possibilità.

Il concetto di Serendipità è un’esortazione alla FEDE, alla fiducia in se stessi e nelle possibilità che l’esistenza ci offre, sempre e comunque.

L’imponderabile della vita può diventare una risorsa solo se noi siamo capaci di sfruttare la casualità a nostro vantaggio. L’anomalia, l’imprevisto, possono trasformarsi in circostanze favorevoli solo se noi siamo pronti a trasformarli in occasioni feconde.

Infine la vita può riservarci sempre sorprese solo se noi siamo aperti ad accoglierle.

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